La più grande vittoria nella storia dello USWNT

Due anni fa, in questo esatto momento della stagione dello USWNT, con una sola partita da giocare nella SheBelieves Cup – non esattamente in questo stesso periodo dell’anno, visto che eravamo al dodici marzo – il rapporto tra la nazionale di calcio femminile statunitense e il proprio datore di lavoro/ente regolatore dello sport nel loro paese raggiunse quello che è, credo si possa tranquillamente dire senza dubbio, il suo punto più basso. Era stata da poco resa pubblica una delle linee difensive della USSF nel processo per la causa sull’Equal Pay in cui la federazione sosteneva come le donne non avessero diritto alla stessa retribuzione degli uomini perché inferiori fisicamente, con diretta ed immediata conseguenza la decisione da parte delle calciatrici di scendere in campo nel pre-partita contro il Giappone con la maglia d’allenamento al contrario, ad eliminare il logo della federazione pur tenendo bene in vista le quattro stelle di campionesse del mondo conquistate dalla squadra nonostante decenni di poca attenzione e spesso attiva discriminazione a livello federale. Ci si trovava di fronte senza dubbio ad un punto di rottura, uno dei quali dopo cui le cose non sarebbero più potute essere le stesse, e in effetti molte cose cambiarono: Carlos Cordeiro, ex banchiere di Goldman Sachs ed ex vicepresidente federale fino alla sua elezione nel febbraio 2018, si dimise anche sotto la pressione dei molti sponsor pronti a ritrattare i propri contratti nel caso non si fosse fatto qualcosa per quella linea difensiva, e al suo posto venne promossa l’allora vicepresidente, Cindy Parlow Cone, che di quello stesso USWNT era stata una stella ai tempi della sua carriera da calciatrice.

 

Non che in quel momento cambiasse qualcosa riguardo alla battaglia legale tra le due parti. L’arrivo di Parlow Cone alla guida della federazione non rappresentava immediatamente un punto di svolta nel rapporto tutt’altro che sereno tra calciatrici e USSF, e pochi mesi dopo quella debacle arrivava il giudizio preliminare della corte distrettuale della California centrale, nella persona del giudice Gary Klausner, che di fatto toglieva dal campo del processo molte delle accuse presentate dallo USWNT, affossando qualsiasi leverage che le calciatrici potessero avere nelle proprie trattative con la federazione sfruttando lo spauracchio giudiziario. Eppure, due anni dopo la cancellazione del logo federale da parte dello USWNT, sempre nel bel mezzo della SheBelieves Cup, questa volta appena prima dello scontro finale con l’Islanda che potrebbe garantire la quinta vittoria della competizione alla nazionale statunitense, lo USWNT e la USSF hanno ufficializzato, con un comunicato congiunto, uno storico accordo che pone fine alla causa legale tra le due parti, che garantisce un risarcimento economico alle calciatrici per gli anni di lotta opposti dalla federazione alle loro richieste e sulla cui base si potrà poggiare di qui a poco il rinnovo di un contratto collettivo che la USSF stessa ha spinto per essere unitario tra USWNT e USMNT e che preannuncia un nuovo futuro di collaborazione tra le parti, un futuro in cui per la prima volta per un lavoro uguale verrà assicurata una compensazione uguale.

 

La decisione congiunta conclude così sei anni di lotte da parte di alcuni dei membri più eminenti e riconoscibili della nazionale statunitense a partire da quando, nell’aprile 2016, Hope Solo, Carli Lloyd, Megan Rapinoe, Alex Morgan e Becky Sauerbrunn presentarono una denuncia contro la propria federazione per discriminazione alla Equal Employment Opportunity Commission. Quella denuncia, che non rappresenta necessariamente l’inizio del processo giunto a conclusione col patteggiamento di queste ore – prima di esso sarebbero intervenuti un nuovo contratto collettivo firmato da entrambe le parti, e al centro del contenzioso giudiziario, oltre che il ritiro di una delle denuncianti della prima ora, Hope Solo – è stata ad ogni modo l’accensione di una scintilla, l’embrione da cui sono andate a generarsi tutte le proteste e tutte le vittorie delle calciatrici di tutto il mondo dal punto di vista della compensazione, un pioneristico e coraggioso atto il cui eco non smetterà di farsi sentire ancora per molti anni. Il calcio statunitense non potrà dire di aver raggiunto l’equal pay prima di nazioni come i Paesi Bassi o la Norvegia – e a dir la verità non può ancora dirlo, visto che il patteggiamento rappresenta solo uno step intermedio, per quanto enorme, in quella direzione – ma è assolutamente legittimo dire che anche quei traguardi non sarebbero stati raggiungibili in quei termini non fosse stato per l’attenzione costantemente tenuta sul tema da parte delle atlete più visibili del pianeta. Fa capire molte cose in questo senso il fatto che, nonostante avessero perso con l’esito del giudizio preliminare molte delle leve con cui sarebbe stato più facile arrivare a questo traguardo, lo USWNT sia arrivato a raggiungere un accordo senza cedere su alcuna posizione e mantenendosi sempre fermo nel proprio lato di campo, dominando il gioco, se mi è permesso continuare la metafora calcistica, pure in una situazione di difficoltà.

 

Ma in che cosa consiste questo accordo, alla fin fine? Quale prezzo ha dovuto accettare la USSF pur di vedere le accuse rivoltegli dalle proprie calciatrici cadute? L’etichetta dice ventiquattro milioni di dollari destinati a tutte le calciatrici soggette alla CBA firmata nel 2017 e prolungata fino al prossimo trentuno marzo in attesa della firma di un nuovo contratto, e suddivisi in ventidue milioni di “paga arretrata” – una tacita ammissione da parte della federazione ad anni di discriminazione salariale, come sottolinea per il New York Times Andrew Das – e in due milioni come contributo pensionistico per le calciatrici, che potranno accedere ciascuna fino ad un massimo di cinquantamila dollari a testa. Ma non solo. Contenuto nell’accordo – che è condizionato alla ratifica del nuovo contratto collettivo, ragione per cui è logico pensare che le due parti non siano lontane da una fumata bianca anche su quel fronte – è la promessa da parte della USSF di “egualizzare” i bonus riservati a calciatrici e calciatori per tutte le competizioni a cui prendono parte, incluso il mondiale, un argomento che potrebbe apparire di secondaria importanza ma che le recenti discussioni ci hanno insegnato essere tutt’altro che tale. La questione dei bonus è stato uno dei punti di maggiore tensione tra le due parti, anche nelle loro dichiarazioni pubbliche degli ultimi mesi, con le calciatrici ferme nella loro posizione secondo cui spettava alla USSF pagare di tasca propria la differenza tra ciò che la FIFA riconosce rispettivamente agli uomini e alle donne per la partecipazione al mondiale, e la federazione restia a coprire da sola un gap multimilionario. Ed è proprio su questo argomento che è legittimo aspettarsi che verteranno la maggior parte delle trattative sulla firma del nuovo contratto collettivo. Già il settembre scorso la USSF aveva affermato, nella persona della sua presidentessa Cindy Parlow Cone, che non avrebbe firmato un nuovo contratto collettivo con entrambe le nazionali senza la condizione di equalizzare il premio partecipazione per i Mondiali. All’epoca lo USWNT aveva definito la strategia federale, usando le parole dell’executive director della USWNTPA Becca Roux, “stunt pubblici che non affrontano le richieste delle calciatrici”.

 

Al di là di quelle che sono state comunque fino ad ora le divisioni pubbliche tra le due fazioni, è ovvio che a noi possa arrivare solo una parte minuscola delle informazioni, e che dunque le trattative abbiano portato la situazione ad un punto in cui la divisione dei soldi della Coppa del Mondo non solo non è più un problema, ma è anche un punto di forza della relazione tra le due parti in questione. Come confermato da Steven Bank, professore di legge a UCLA e esperto di questioni legali concernenti il calcio e lo sport in generale, è difficile immaginare si possa rendere pubblico un accordo così dipendente sulla firma di un contratto collettivo se quella stessa CBA non fosse già ad un punto soddisfacente della redazione. Ma questo non vuol dire che non potrebbero esserci ancora complicazioni. In primo luogo il patteggiamento deve essere approvato da un giudice e per quanto, come sottolinea Bank nel suo thread, è estremamente improbabile qualcuno abbia qualcosa da ridire, comunque potrebbero volerci mesi prima che questo avvenga. In seconda battuta, lo stesso comunicato congiunto di USWNT e USSF non fornisce molta chiarezza per quel che riguarda cosa si intenda esattamente per “equal pay”. Come ho già detto, all’esterno non arrivano tutti i dettagli delle discussioni, e quindi è logico immaginare che, se Alex Morgan e Cindy Parlow Cone hanno deciso di collegarsi insieme con lo studio di Good Morning America subito dopo l’annuncio, le due parti siano d’accordo sul cosa intendere con quella definizione, però è curioso notare come il termine utilizzato nel comunicato per annunciare la promessa di egualizzare i bonus da parte della federazione, “rate of pay”, sia lo stesso esatto termine la cui definizione del significato è al centro della causa legale. La questione cruciale che dovremo tenere d’occhio nel momento in cui verrà reso pubblico l’accordo sul contratto collettivo, o qualora le trattative torneranno in una fase di stallo, è cosa venga inteso per “rate of pay” e come quella definizione venga applicata, per esempio, alla cospicua differenza economica tra i bonus che riceverà lo USMNT qualora si qualificasse in Qatar e quelli che arriveranno nelle tasche della nazionale femminile per la partecipazione a Australia-Nuova Zelanda 2023.

 

L’ultima questione pressante riguarda il ruolo che questo accordo svolgerà nella tornata elettorale che decreterà la prossima guida della USSF. Il prossimo cinque marzo, ad Atlanta, a sfidarsi per la guida della federazione statunitense saranno l’uscente Cindy Parlow Cone e Carlos Cordeiro, proprio l’ex presidente dimessosi in seguito allo scandalo scoppiato per la linea difensiva sessista presentata dalla USSF in tribunale. Se questa fosse un’elezione pubblica, se chiunque avesse un passaporto statunitense e un anche solo accennato interesse per il calcio avesse diritto di voto, la questione non si porrebbe neanche. Da una parte l’uomo che maggiormente ha allontanato le calciatrici dalla propria federazione, dall’altra la donna, per di più ex calciatrice, che ha messo in piedi l’accordo che potrebbe finalmente ricucire uno strappo pluridecennale. Ma se c’è una cosa che le elezioni della USSF non sono, come tra l’altro la gran parte delle elezioni per organi sportivi federali, è un contest di popolarità, e anche se è difficile immaginare che per gran parte dei membri della federazione con diritto di voto – viene da pensare soprattutto all’Athlete Council, che da qualche anno per legge deve avere almeno un terzo dei voti, e che recentemente ha eletto rappresentanti giovani come quelli della Next Gen United, di cui fa parte anche un prospetto di interesse per lo USWNT come Brianna Pinto – questo accordo non possa non essere uno stimolo per votare Cone, potrebbe essere utile dare uno sguardo a chi controlla la restante quota di voti, e a come i loro interessi non necessariamente possano collimare non semplicemente con quelli dello USWNT, ma con quelli del calcio professionistico in generale.

 

Il quaranta per cento dei voti cade infatti nelle mani delle organizzazioni dilettantistiche e giovanili, ciascuna rispettivamente al venti per cento, uno stuolo infinito di piccole associazioni locali che operano con budget ristretto e sfruttando per larga parte volontari ma con un potere di voto sproporzionato al loro impatto sullo stato dello sport nel paese. Queste associazioni, vantandosi del proprio ruolo come grassroots del gioco, e rivendicando sempre maggiore importanza all’interno della federazione, spesso proprio a svantaggio del professionismo, sono una voce che può spostare molto a livello elettorale, e si sono dimostrate nel tempo estremamente attente alle questioni più strettamente economiche della federazione. Nel 2018 Cordeiro riuscì a vincere le elezioni perché nel campo affollatissimo di candidati fu colui che più di tutti seppe parlare e stringere legami con le associazioni, presentando loro la fontana dell’eterna giovinezza del Mondiale maschile 2026, una cascata di denari pronta a essere reinvestita, a suo dire, nelle radici dello sport nel paese. Se, come probabile, fosse confermata la tendenza da azzeccagarbugli di queste associazioni, la questione sul da dove tirare fuori quei ventiquattro milioni potrebbe essere un punto dirimente per molte di esse, soprattutto se dall’altra parte ci fosse un pifferaio magico pronto a sventolare la sua esperienza in FIFA e l’essere riuscito a riportare negli Stati Uniti la Coppa del Mondo, con tutto l’immenso giro economico che ci sta intorno. Ad oggi, Cindy Parlow Cone sembra godere di un consistente vantaggio, e parte di questo arriva senza dubbio dall’aver risolto una querelle che a livello di immagine era un fallimento semovente per la federazione più o meno da quando un coro di “Equal Pay! Equal Pay!” inondò l’allora presidente federale alla parata per la vittoria del mondiale 2019 da parte della squadra di Jill Ellis, ma definire la partita come chiusa rischierebbe di tenere fuori troppe variabili.

 

Lo so, l’ultimo paio di paragrafi potrebbe togliere al lettore l’esaltazione e l’assolutamente legittima gioia per la notizia così importante uscita nella mattinata – ma verrebbe meglio dire la notte – statunitense. Ci sono ancora tanti punti che devono essere chiariti. Ma questo non deve assolutamente togliere nulla al valore fondamentale e storico di questa giornata, che oltre ad essere palindroma ha posto anche le basi per un futuro migliore non solo nei rapporti tra federazione e calciatrici, ma più in generale per l’intero movimento. In fin dei conti, la maggior parte dei dubbi e delle incognite citate in questo pezzo sono potenzialmente tali solo per chi ne parla e chi ne legge, e non per chi le ha annunciate al pubblico. Quello che è veramente fondamentale è sottolineare quanto questa squadra e queste calciatrici abbiano lottato, quanto siano state ferme e irremovibili nelle loro posizioni anche quando gli esiti giudiziali preliminari suggerivano una maggiore apertura al compromesso, e quanto alla fine questa scelta abbia pagato, garantendo loro il passo più significativo nella direzione giusta mai fatto non solo nei loro sei anni di lotta contro la federazione, ma forse più in generale nella storia intera di questa nazionale, a partire dalla sua nascita nel 1985. “È un giorno speciale” ha affermato Megan Rapinoe, uno dei volti di questa battaglia, a Good Morning America, “Credo veramente un giorno potremo guardare indietro a questa giornata e dire che questo è il momento in cui la USSF è cambiata per il meglio”. Attraversando venti di incertezza, con una sconfitta importante alle spalle e con qualcosa di molto vicino all’intera carriera da perdere – ricordiamo che, ancora nell’ultima CBA, alle calciatrici della nazionale lo stipendio viene pagato dalla federazione e non dai propri club – lo USWNT ha ottenuto la più grande vittoria possibile, un’ammissione di colpa da parte di chi le ha discriminate per anni sotto forma di cospicuo risarcimento e una promessa di cambiamento di rotta immediato. Due anni fa, dopo le dimissioni di Carlos Cordeiro, scrivevo che quella lettera da sola non sarebbe bastata per fermare il sessismo dilagante all’interno della USSF. Neanche questo accordo ha il potere di far sparire con un colpo di bacchetta magica tutto ciò che di sbagliato c’è all’interno della federazione, ma non esiste uno scenario in cui non si debba passare di qui per sperare di poter risolvere una volta per tutte la situazione

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