Sullo stato dello US*NT – I due programmi dopo l’estate

Un paio di mesi fa ci trovavamo su queste frequenze a discutere di quella che sarebbe potuta essere l’estate delle due selezioni nazionali statunitensi, impegnate rispettivamente a Tokyo e dintorni nel torneo olimpico femminile e in varie sedi sparse per gli Stati Uniti per una nuova edizione della Gold Cup.

In quella sede discutevamo di quelle che potessero essere le ambizioni delle due squadre alla ricerca della gloria e di nuovi trofei da portarsi a casa, e avevamo dipinto il quadro di due selezioni in situazioni molto diverse, e per questo con obiettivi che non necessariamente sarebbero risultati condivisi.

Queste due situazioni differenti non rappresentano altro che il ritrovarsi da parte di USWNT e USMNT in due stati diversi dei cicli che naturalmente coinvolgono tutte le squadre di questo pianeta, specialmente se nazionali. Tanto Kate Margraf quanto Brian McBride, i General Manager rispettivamente della nazionale femminile e di quella maschile, sanno che i prossimi anni saranno per le loro squadre quelli di un cambio generazionale, ma la differenza tra questi due ricambi non sta solamente nell’occasione che li ha resi necessari – da una parte l’emergenza immediatamente successiva al più grande fallimento del calcio statunitense, ovvero la mancata qualificazione ai mondiali del 2018 resa possibile dall’aver praticamente mancato una generazione di giocatori non in grado di dare un contributo significativo alla causa, dall’altra la normale e ragionevole consunzione per sopraggiunti limiti d’età di un gruppo che può ragionevolmente essere considerato il più forte nella storia dello sport – ma anche nelle stazioni di questo ciclo infinito in cui al momento le due selezioni si trovano.

Se infatti entrambi i due commissari tecnici, Vlatko Andonovski e Gregg Berhalter, sono stati chiamati su quella panchina con il compito ben preciso di gestire il ricambio generazionale cercando di mantenere – o nel caso di Berhalter ricostruire – una cultura vincente e spettacolare in grado di infiltrarsi a tutti i livelli delle selezioni nazionali statunitensi, incluse quelle giovanili, pare evidente anche all’occhio meno allenato quanto questi due cicli non possano essere considerati naturalmente sovrapponibili in fatto di tempistiche. Il nuovo ciclo dello USMNT è iniziato il giorno dopo Couva, e Berhalter ha avuto modo di controllarlo dal dicembre 2018, mentre quello dello USWNT, di fatto, è ancora a qualche mese dal potersi prendere la scena.

Pur essendo stato assunto dalla USSF proprio con l’intenzione di rivitalizzare la nazionale più vincente della storia del calcio femminile appena dopo l’addio di Jill Ellis nell’autunno 2019, fin da subito è stato chiaro a tutti, anche per le parole dello stesso Andonovski, quanto le Olimpiadi del 2020/21 sarebbero servite come Last Dance per la generazione precedente, e come solo da dopo l’avventura a Tokyo – o meglio dal prossimo inverno, visto che le amichevoli dei prossimi mesi faranno parte della cosiddetta Send Off Series e vedranno protagoniste le stesse atlete viste ai Giochi – si sarebbe potuto iniziare a discutere veramente dello USWNT che parteciperà al mondiale austro-neozelandese del 2023. Le differenti situazioni in cui le due nazionali si presentavano all’inizio dell’estate hanno evidentemente influenzato le ambizioni di successo, i traguardi dopo cui tanto i Giochi di Tokyo quanto la Gold Cup sarebbero potuti essere considerati un risultato dal positivo all’eccezionale.

Per lo USWNT gli occhi erano indubbiamente puntati su una medaglia d’oro, mentre per lo USMNT il torneo sarebbe stato – a maggior ragione dopo il trionfo nella neonata eppure già carica di significato Nations League contro il Messico – un’eccellente occasione per testare la profondità della player pool, per valutare quante garanzie un nucleo fortemente orientato al mercato domestico con poche importazioni dall’estero potesse dare anche in assenza delle stelle che dovrebbero guidare il percorso della selezione nel ciclo con vista sul mondiale casalingo del 2026. Alla stessa maniera, se differenti erano le condizioni d’ingresso, differenti sono anche le valutazioni che si possono fare post scorpacciata estiva di soccer, specialmente se consideriamo che laddove c’erano per nulla nascoste ambizioni di vittoria è arrivata una medaglia pur non del materiale desiderato e dove invece le attese sembravano meno pressanti è arrivato il secondo trofeo dell’estate, per la seconda volta contro i principali rivali continentali, ovvero il Messico.

Ok, diciamolo subito, prima che qualcuno si faccia prendere un po’ troppo la mano. Non c’è un’emergenza USWNT, e non c’è alcun sorpasso di fortune da sbandierare tra le due selezioni – anche perché 1) non è una competizione e 2) come da tormentone molto in voga quest’estate, lo USMNT “ne deve mangiare di pastasciutta” prima che li si possa considerare una potenza di pari grado rispetto alle connazionali – ma certo ci sono delle domande che possono essere poste.

Non necessariamente sul risultato finale. Una medaglia di bronzo è comunque una medaglia e a livello olimpico ha un valore incredibile, senza contare che la sconfitta in semifinale è arrivata contro la migliore squadra del torneo, quella che poi ha portato a casa il primo oro nella carriera di una delle calciatrici più forti di ogni epoca come la canadese Christine Sinclair. Le domande più che altro arrivano a vertere sul modo di giocare, sullo stile della squadra, sulle prestazioni di questi Giochi, cercando di andare oltre il semplice tabellino dell’incontro. Sono domande che non possono tramutarsi in nulla di più, perché come abbiamo detto il vero lavoro di rivoluzione di Vlatko Andonovski deve ancora iniziare, ma certo fanno desiderare a chi guarda e tifa una maggiore trasparenza da parte del tecnico di origine macedone su quale sia esattamente la sua visione per lo USWNT. Il torneo olimpico della nazionale statunitense è stato un susseguirsi di alti e bassi, in cui a prestazioni da panic button sono succedute partite estremamente positive, che ci hanno riconsegnato l’immagine di uno USWNT che non solo vince, ma lo fa divertendo e divertendosi, raccogliendo sulla strada gol come Obelix collezionava elmi di legionari romani. Come su un tappeto elastico, le tre reti prese dalla Svezia hanno garantito la spinta giusta per far volare la squadra sull’esaltazione delle sei reti segnate alla Nuova Zelanda, per poi venire zavorrata nel soporifero 0-0 contro l’Australia – un collettivo non facciamoci del male la cui visione deve essere risultata una delle tre/quattro scelte peggiori nella vita degli appassionati statunitensi svegliatisi alle quattro di mattina – e successivamente alleggerita dalle due reti e dal trionfo ai rigori nella riedizione ai quarti di finale dell’incontro decisivo per l’ultima coppa del mondo contro i Paesi Bassi, ripetendo per un’ultima volta questa mozione oscillatoria nella sconfitta contro il Canada in semifinale e nella vittoria per il bronzo vs il Brasile.

Anche considerando i picchi di eccellenza raggiunti dalla squadra lungo il torneo, dunque, questi non possono non essere messi in ombra da una balbuzie incapace di dare continuità alla squadra e che non si riesce bene a comprendere quanto sia dovuta alla naturale usura di un gruppo con otto calciatrici nate negli anni ’80 e dieci atlete oltre quota 100 presenze con il logo degli Stati Uniti sul petto o alle idee di un tecnico da sempre descritto come ossessionato dal controllo di ogni minimo dettaglio – mitologici sono i suoi quadernoni ad anelli con decine e decine di cartellette plastificate riempite con appunti di gioco – o, magari, all’incrocio tra questi due ingredienti, che non sembrano, presi singolarmente, promettere di funzionare così bene quando uniti insieme. Sia chiaro, non immaginiamo esserci stati scontri tra il gruppo delle atlete e lo staff tecnico, non è di questo che stiamo parlando. Molto semplicemente, è logico immaginarsi che gli interessi di una trentottenne Carli Lloyd – che appena dopo le Olimpiadi ha annunciato il suo ritiro al termine della stagione – non possano necessariamente sovrapporsi nel breve termine con quelli di un tecnico annunciato come il portatore del ricambio generazionale, e che la consapevolezza di questi Giochi come di un passaggio intermedio nel percorso che definisce l’identità dello USWNT possa aver fatto passare il messaggio di un torneo meno importante degli altri, il cui risultato non avrebbe inciso né sulla legacy del gruppo più vincente nella storia della nazionale né sul futuro del progetto tecnico dell’allenatore di origine macedone.

In fin dei conti, la storia ci dice che il torneo olimpico femminile non è mai stato vinto dalla nazionale in quel momento campionessa del mondo in carica, e l’avventura decisamente più negativa del 2016 ci dimostra quanto poco abbia poi influenzato il cammino vincente dello USWNT nel mondiale francese del 2019. Uscendo da questo torneo olimpico, dunque, la domanda che ci si deve porre non è “dove si è sbagliato?” quanto piuttosto “dove si va da qui in poi?” e provare a capire quali indicazioni questi Giochi ci abbiano fornito sul futuro della squadra. La prima, tra le tante che Tokyo ci ha lasciato, è che qualcosa sembra essersi perso nello stile di gioco dello USWNT. Prima ancora che nei meccanismi, prima ancora che nelle combinazioni tra calciatrici, prima ancora nell’incapacità di sfruttare gli spazi concessi dalle avversarie, le mancanze evidenti della squadra sono arrivate nella mentalità, nell’atteggiamento collettivo della squadra.

Lo USWNT non si è divertito a Tokyo, non ha giocato come sa fare, non ha espresso sul campo e non ci ha fatto sentire da casa la gioia che è stata al centro di molti dei momenti più iconici di questa squadra. E non sono solo io a dirlo, ma è proprio la voce di Megan Rapinoe ad aver messo questa tematica al centro, in seguito alla sconfitta con il Canada. L’impressione, anche visto il rapporto non eccezionale che tutte le atlete avevano con chi ha preceduto Andonovski su quella panchina, ovvero Jill Ellis, è che il tecnico macedone possa avere colpe relative in questo caso, e che al massimo alcune sue scelte possano essere interpretate come il rifrangersi di una più generale condizione del gruppo sulle sue decisioni – come quella di addormentare la partita contro l’Australia con la complicità delle Matildas – piuttosto che viceversa. E queste condizioni potrebbero essere un cocktail di una serie di situazioni indipendenti, come la stanchezza collettiva di un gruppo che è dieci anni che domina il mondo con pochi cambiamenti all’interno del roster o come l’essersi semplicemente abituate peggio delle rivali al Villaggio Olimpico di Tokyo. In poche parole, questa difficoltà sembra essere risolvibile, a patto che Andonovski e chi di questo gruppo farà parte anche del prossimo ciclo siano in grado di mettere, insieme, una pietra sopra a queste ultime settimane. Un’altra situazione significativa, che pure per certi versi potrebbe essere collegata a quella precedente, sembra essere quella del continuo mismanaging del talento di Crystal Dunn, o meglio dell’annoso problema del terzino sinistro nello USWNT. Crystal Dunn è forse il singolo talento più incredibile della sua generazione, ed è una delle calciatrici più complete del pianeta. Interpreta il ruolo di terzino sinistro in maniera impeccabile, tanto che nessuno ne farebbe a meno – e a Tokyo, oltre ad essere stata spesso decisiva, è scesa in campo per tutti i minuti del torneo tranne sedici – eppure quella, semplicemente, non è la sua posizione, e Dunn stessa, da qualche tempo ormai, lo sta sottolineando sempre di più. Nelle sue idee Crystal Dunn è una centrocampista creativa e tecnica, ma nessuno in nazionale le ha ancora mai trovato un posto lontano dalla zona più difensiva della fascia, e il suo apertamente espresso dispiacere per la porzione di campo che deve occupare potrebbe essere uno dei maggiori contribuenti all’ambiente poco gioioso che Rapinoe ha descritto in seguito al mancato passaggio in finale. Non è che giochi male, come detto, è che gioca molto lontano dal suo – devastante – potenziale, pur essendo una delle migliori interpreti del ruolo, e per potenziale intendiamo non solo quello tecnico, ma forse anche e sopratutto quello spettacolare. Provarla in una posizione diversa potrebbe sbloccare lo USWNT, ma a quel punto verrebbe da chiedersi chi potrebbe occupare la sua posizione. Un nome potrebbe essere quello di Tierna Davidson – l’unica ad aver sostituito Dunn durante il torneo olimpico – ma la classe 1998 è già considerata l’erede di Becky Sauerbrunn in difesa, e visto che parliamo, in quest’ultimo caso, di una trentaseienne, il talento delle Red Stars potrebbe essere in altre faccende affaccendata qualora si dovesse decidere di spostare Dunn – e a Tokyo, dopo l’esordio dalla panchina contro la Svezia, sembra essersi riuscita a prendere quel posto da titolare al centro della difesa. Più ragionevole potrebbe essere l’inclusione di Hailie Mace qualora la classe 1997 dovesse riuscire a sfruttare la trade che l’ha vista recentemente prendere la direzione di Kansas City, stabilendosi come titolare in una formazione meno profonda rispetto a quella delle North Carolina Courage e magari risollevando quella che ad oggi è la squadra più in ritardo della NWSL. L’ultimo grande tema tirato poi fuori da queste Olimpiadi riguarda la nuova generazione di atlete. Tra le ventidue di Tokyo, oltre a Davidson l’unica altra rappresentante della Generazione Z era Catarina Macario, da molti descritta come la futura stella dello USWNT, che pure in Giappone ha trovato il campo solamente per sei minuti a risultato già deciso contro la Nuova Zelanda. Senza voler fare polemiche sul suo impiego in campo – che fosse scarso era legittimo attenderselo – si può sfruttare la sua presenza sull’aereo per Tokyo per discutere dei modi attraverso cui Andonovski potrebbe indurre questo ricambio generazionale nella squadra. Si tratterà di un cambio di rotta improvviso, di un massiccio uso di forze fresche fin da subito per preparare al meglio la nuova squadra al CONCACAF Women’s Championship che deciderà le partecipanti al mondiale per il continente e che a maggior ragione visto il passaggio della Coppa del mondo a trentadue squadre dovrebbe risultare sempre più una formalità? Oppure in maniera moderata? Questa non è una domanda a cui possiamo dare facilmente risposta non avendo tutti i dati in mano e non avendo accesso ai quadernoni di Andonovski, ma possiamo dire che il tecnico di origine macedone deve essere uscito da questi Giochi con una risposta sicura sull’argomento, perché proprio la transizione appare essere il momento potenzialmente più decisivo dell’intero ciclo mondiale. Se l’argomento di cui andremo a trattare tra poco – come anche, per esempio, la vittoria agli Europei maschili dell’Italia – ci hanno insegnato qualcosa, è che tra le infinite variabili che possono far andare storto il percorso di crescita di una squadra nazionale, una gran parte se non la maggior parte di queste variabili intervengono proprio prima del Grande Appuntamento, spesso nel processo di qualificazione o comunque di costruzione del gruppo. Le Olimpiadi di Tokyo sono state per lo USWNT decisamente migliori rispetto a quelle di Rio, eppure sembrano lasciare la squadra più vincente della storia di fronte ad un bivio ben più decisivo e pericoloso rispetto a quello successivo alla lotteria dei rigori contro la Svezia.

Al contrario dello USWNT, la nazionale maschile statunitense guidata da Gregg Berhalter ha iniziato da qualche anno il suo ciclo di ricambio generazionale, già nell’interregno provvisorio dell’ex assistente di Bruce Arena tra l’incontro di Couva e l’assunzione del tecnico ex Columbus Crew, e dunque si apprestava ad affrontare questa Gold Cup con la necessità di aggiungere un ultimo mattoncino alla propria costruzione. Se la vittoria in Nations League aveva dimostrato come le punte di questo nuovo gruppo di giocatori – da anni descritto come il più talentuoso che lo USMNT abbia mai visto – rappresentino già adesso fondamenta solidissime a cui affidare il proprio futuro ad alto livello, la profondità del gruppo, la capacità di raccogliere contributi potenzialmente importanti anche da giocatori non necessariamente nelle primissime posizioni della depth chart era ancora un’incognita, e questa Gold Cup sarebbe servita a riconoscerne la consistenza, se fosse del più solido cemento o invece fragile come un castello di carte.

La prima opzione è poi risultata essere quella corretta, e si può dire che si fosse affermata come tale anche prima della finale all’Allegiant Stadium di Las Vegas e del gol vittoria nei supplementari di Miles Robinson. Questo non solo perché un Messico con molti reduci, al contrario degli Stati Uniti, della finale di Nations League sembrava approcciare questa competizione con più favori del pronostico rispetto al solito, ma anche perché sembravano esserci dubbi sul fatto che lo USMNT potesse definirsi come la seconda forza del torneo. La crescita del Canada ben oltre le vette già notevoli dei quasi omonimi David e Davies li rendeva una squadra competitiva anche in contumacia delle sue due stelle principali, mentre la politica di naturalizzazione di atleti britannici della Giamaica, unita alla presenza di Leon Bailey, lasciavano credere che i Reggae Boyz potessero imitare le due finali consecutive nel 2015 e nel 2017, e tutto questo senza considerare un Qatar, nazione ospite, che ha già dimostrato di essere una potenza nel continente asiatico e che rappresenta forse una delle nazionali meglio organizzate in uno stile di gioco coeso che si possano trovare in giro per il mondo adesso. Tutte queste nazioni, anche se può sembrare strano, ambivano a presentarsi ai cancelletti di partenza come competitor del Messico tanto quanto, se non più, i rivali storici del Tri.

Sul campo lo USMNT si è dimostrato in grado di battere tutte e quattro queste formazioni – sempre per 1-0 – e ha consegnato a Gregg Berhalter un gran numero di certezze sul futuro, e il trionfo in finale contro il Messico è risultato essere solo la ciliegina su una torta che già era uscita dal forno al momento giusto. Tra gli effetti della vittoria del torneo – oltre evidentemente al trofeo fisico che finirà nella Soccer House di Chicago – non ci sono solo i bragging rights nei confronti del Messico, con questo gruppo che sembra ormai entrato sottopelle al Tri come fin troppo spesso le altre avversarie continentali tra Gold Cup e Hexagonal erano entrate sottopelle alle precedenti edizioni dello USMNT, ma anche incidentalmente qualcosa di più pratico, come l’ingresso nella Top 10 del FIFA Ranking, che avrà poco valore analitico ma che comunque viene utilizzato dall’organo internazionale per decidere la divisione in fasce delle nazionali che partecipano al mondiale prima del sorteggio dei gruppi, risultando dunque importante quantomeno da tenere d’occhio. Ma, come detto, la vittoria risulta quasi secondaria rispetto al gran numero di dati positivi che la squadra e i singoli giocatori ci hanno permesso di incamerare in uscita da questo torneo.

Matt Turner, il miglior portiere della MLS – quasi in volata, apparentemente, ma con un vantaggio chilometrico, se ci si getta a capo fitto nel mare delle statistiche avanzate – ha dimostrato chiaramente di poter ambire ad essere un titolare di questa nazionale tanto quanto Zack Steffen, che resta di base il numero uno di questa squadra, indipendentemente da quante partite di coppa riesce a giocare al Manchester City, e Ethan Horvath, che dopo la miracolosa prestazione in finale di Nations League si è guadagnato anche un trasferimento al Nottingham Forest, dove dovrebbe trovare i minuti che mancavano in Belgio. Il dato è non solo fondamentale perché restituisce l’idea di un reparto solidissimo, ma è anche testamento all’incredibile carriera che ha portato Matt Turner fino a questo punto. Ex giocatore di baseball e pallacanestro, Turner ha iniziato a giocare a calcio solo al liceo, arrivando nella squadra varsity della propria scuola solo all’ultimo anno di scuola. Iscrittosi a Fairfield University come semplice alunno, il portiere convinse lo staff ad inserirlo in rosa, ma senza necessariamente trovare da subito spazio. Dopo una prima stagione tutta in panchina, a metà della seconda arrivò, causa infortunio del titolare, un’opzione dal primo minuto. In quella partita contro Iona si rese protagonista di una papera che lo portò addirittura al numero 1 della Not So Top 10 di Sportscenter. Undrafted in uscita dal college nel 2016, Turner riuscì a ricavarsi un posto come terzo portiere dei Revolution, fino all’incontro con Bruce Arena, che gli assegnò immediatamente le chiavi della porta, con risultati eccezionali. Shot-stopper clamoroso e protagonista negli ultimi anni di miglioramenti sensibili con il pallone tra i piedi – dato non scontato per chi prima dei sedici anni di fatto non aveva mai giocato seriamente a calcio – Turner è da tempo che si sente descrivere come un potenziale titolare per lo USMNT, ma prima di questo torneo non aveva mai avuto la possibilità di dimostrarlo su una lunga finestra di partite, rivelandosi a tutti come il giocatore decisivo che chi guarda la MLS conosce da tempo ormai. Ma se le prestazioni di Turner erano anche prima della Gold Cup un punto d’interesse tra i principali da tenere d’occhio durante la competizione, il portiere dei Revs non è l’unico ad aver significativamente aiutato la sua causa durante questa estate.

Sulle fasce, tanto Sam Vines quanto Shaq Moore hanno scalato posizioni nella depth chart, andando da una parte – quella dell’ex Rapids passato in estate all’Anversa – a trovare una potenziale soluzione al cubo di Rubik del terzino sinistro, con un Antonee Robinson che per pedigree dovrebbe occupare quel posto ma che non ha mai veramente convinto in nazionale, e dall’altra – quella del venticinquenne terzino del Tenerife, uno dei pochi “europei” portati da Berhalter, nel suo caso per metterlo in mostra in occasione di una potenziale cessione – come un ennesimo candidato ad inserirsi come vice Dest in quella che è forse la posizione più affollata nella player pool. Tra i “veterani MLS” – se escludiamo i due portieri di riserva Sean Johnson e Brad Guzan, nessuno nello USMNT superava i trent’anni e solo quattro avevano un’età superiore ai ventisei – il classe 1995 Kellyn Acosta ha dimostrato di essere entrato nella sua maturità calcistica.

Il centrocampista dei Rapids – che non ha mai nascosto le sue ambizioni d’Europa – ha trovato finalmente il suo posto nelle rotazioni di Berhalter proponendosi come il vice-Tyler Adams nella posizione cruciale all’interno dello schema dell’ex tecnico dei Columbus Crew di vertice basso dei tre di centrocampo. Ordinato, tecnico ma anche capace di ottime corse con il pallone ai piedi, l’ex FC Dallas si è preso il posto che fino ad ora era spettato a Jackson Yueill, che, al contrario, rischia il suo posto negli USMNT futuri dopo una Gold Cup decisamente poco brillante. Al di là di quest’ultimo caso riguardante il centrocampista degli Earthquakes, comunque, è veramente difficile trovare lati negativi alla Gold Cup degli Stati Uniti. A dover essere puntigliosi, come punta non ha convinto Daryl Dike, che avrebbe dovuto sfruttare l’occasione per candidarsi come titolare nella posizione, ma non possiamo non considerare alcune situazioni particolari legate al classe 2000. Non solo Dike fin dalla partita con il Canada ha dimostrato uno stato fisico non eccezionale, frenato da un infortunio alla spalla, ma di fatto non si è mai fermato da quando è iniziata la sua carriera professionistica.

Negli ultimi sedici mesi, dopo aver sperimentato solamente il calcio scolastico USA, inclusa una NCAA con stagioni compresse e immense finestre di tempo vuote, Dike si è ritrovato titolare a Orlando in una stagione resa più difficile dalla pandemia, ha partecipato ai camp dello USMNT sia di dicembre 2020 che di gennaio 2021, è andato al Barnsley, ha dominato in Championship, è tornato in MLS e poi è partito in ritiro con la nazionale, tutto questo senza mai potersi veramente fermare. Sarebbe assurdo pretendere molto di più da un veterano con dieci anni di carriera alle spalle, figurarsi da un ragazzo ventenne che non è neanche cresciuto all’interno di un vivaio professionistico. In un ambiente che richiede sempre molto alla propria nazionale, spesso anche oltre le reali aspettative che si possano avere intorno a certi gruppi di calciatori, questa Gold Cup rappresentava forse il primo caso in anni in cui lo USMNT si presentava ad una competizione internazionale con abbastanza sicurezze da non gridare al disastro per ogni minima difficoltà e con un maggiore interesse nel testare la propria profondità che nel vincere ad ogni costo. Forse anche grazie a questo cambio di prospettiva, lo USMNT ha trovato una splendida vittoria, conquistandosi la settima vittoria nella principale competizione continentale nel Nord, Centro America e Caraibi. E sopratutto, trovando nuove certezze nella profondità di un gruppo sempre più ricco di talento.

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