LANDON DONOVAN, IL RITORNO DI CAPITAN AMERICA

“Landon ha portato il vero cambiamento nel gioco del calcio negli Stati Uniti. Ha fatto tutto”. Firmato Bruce Arena, l’allenatore del grande Los Angeles Galaxy degli Anni 2010. Era il 7 dicembre 2014 e, intorno alle 23 italiane, il magnifico undici californiano vinceva la MLS Cup superando in finale il New England Revolution per 2-1. Quella sarebbe stata l’ultima partita di un dio del calcio, di uno che ha letteralmente creato il mito del soccer in America, di un uomo senza eguali con gli scarpini addosso: Landon Donovan, il solo e autentico Capitan America. E chi lo aveva mai visto uno così in terra d’oltreoceano. Chi lo aveva mai visto un bambino camminare con il pallone sotto braccio per andare a palleggiare contro il muretto in un quartiere dove a destra c’era un campo di softball e a sinistra un playground di basket.

Il suo addio ai campi da gioco ha segnato, senza retorica, il tramonto di un’era. Smetteva di giocare l’uomo che aveva reso grande il calcio made in Usa, smetteva di giocare il miglior marcatore (e assistman) di sempre della storia della Nazionale statunitense (57 gol) e della Major League Soccer (144 gol). Era troppo, decisamente troppo. Per certi versi si stavano rivivendo le emozioni provate con l’addio al basket di Michael Jordan: un sentimento di malinconia unito a un estremo senso di gratitudine verso un uomo, ma che dico, un eroe che aveva scelto l’America per rappresentare un intero sport. Come si fa a rassegnarsi a una tale perdita? Semplicemente non si può. E allora, almeno per Donovan, è avvenuto quello che il celebre film d’animazione Space Jam ha immaginato per Jordan: un clamoroso ritorno in campo dopo l’addio. Noi non sappiamo se dal 2014 ad oggi Donovan sia stato chiamato da Bugs Bunny e Daffy Duck a giocare una partita di calcio contro gli alieni, ma fatto sta che il campione a stelle e strisce ha deciso di tornare a giocare. “Voglio alzare ancora un altro trofeo, non ce la faccio più a stare lontano dal calcio”, ha dichiarato. La sua squadra, manco a dirlo, sarà ancora quella allenata dal suo più grande estimatore: Bruce Arena. La squadra in cui ritroverà altri miti del calcio, come il “gemello del gol” Robbie Keane (ritiratosi la settimana scorsa dalla Nazionale irlandese) e Steven Gerrard, grande avversario nei derby di Liverpool tra 2009 e 2012. Ma facciamo un passo indietro.

Di leghe calcistiche, gli Stati Uniti avevano già fatto piena esperienza negli anni precedenti. Ma il calcio non valeva ancora nulla, nonostante il passaggio di protagonisti mitologici (bastino i nomi di Johann Cruijff e Pelè). Nel 1994 Landon aveva 12 anni e, per la prima volta nella sua vita, sperimentò in prima persona la grande passione che il calcio era in grado di infondere nel pubblico popolare. Anche oltreoceano, anche nel Paese del basket, del football e del baseball. Quell’estate andavano in scena i Mondiali di Usa ’94, segnati dalla stella indiscussa di un poeta in scarpe da calcio: Roberto Baggio. E fu proprio il Divin Codino, ribattezzato dagli americani “Pony tail” per via della sua capigliatura, ad accendere gli animi di chi, di lì a poco, si sarebbe scoperto grande appassionato di soccer. Baggio, Pallone d’Oro in carica, era un qualcosa di mai visto: correva e danzava sull’erbetta, dipingeva con l’interno destro e portava avanti la sua (e la nostra) Nazionale con il volto segnato da sofferenza e passione. Per Donovan fu una rivelazione. Qualche anno dopo sarebbe stato lui a far sognare i tifosi americani nello stesso modo in cui Baggio faceva sognare gli italiani. Ecco perché la storia del calcio statunitense si divide tra un prima e un dopo Landon Donovan, l’uomo che da solo ha preso a calci il pallone in un Paese dove la palla si faceva rimbalzare, si picchiava con una mazza o non era neanche rotonda.

Los Angeles Galaxy's Landon Donovan acknowledges fans while celebrating after winning the MLS Cup championship soccer match against the New England Revolution, Sunday, Dec. 7, 2014, in Carson, Calif. The Galaxy won 2-1 in the second period of extra time. (AP Photo/Jae C. Hong)

La sua non è la classica storia del ragazzino che il padre sogna di trasformare in un grande calciatore. Suo padre, Landon non l’ha avuto accanto nei campetti. Ad aiutarlo negli allenamenti era il fratello Josh, uno che ai piedi non aveva proprio due ferri da stiro. Credeva di essere il migliore in famiglia, finché non ha visto giocare il fratellino. Al primo allenamento sugli stop, non gli dovette neanche insegnare nulla: la palla rimaneva incollata al piede, istantaneamente, quasi per magia. E di magia si doveva trattare anche quando Landon comincia a giocare per i Cal Heat di Rancho Cucamonga, la sua prima squadra in assoluto. Ed era subito un’altra cosa. E non parliamo soltanto di calcio. Come ricorda Richard Motzkin, il primo storico agente di Donovan, al di là delle eccellenti qualità tecniche e balistiche del giovane Landon, la caratteristica più incredibile era un’altra: riusciva a infiammare le folle dovunque andasse, qualsiasi cosa facesse. E qui il paragone con Roberto Baggio ci sta tutto, perché Baggio era il giocatore che si andava a vedere giocare e a tifare anche quando giocava contro la nostra squadra del cuore. Era un sentimento totale: Landon diventava automaticamente l’idolo di ragazzine, ragazzini, mamme e papà. Se non è magia questa.

La stessa capacità venne fuori anche quando, appena 17enne, Donovan si trasferì in Europa. Un americano andava a giocare in Europa: incredibile. Al Bayer Leverkusen, al Bayern Monaco e all’Everton Donovan non lasciò il segno sul campo, ma entrò nel cuore dei tifosi come è riuscito a pochi altri suoi colleghi in quegli anni. Le sue qualità erano troppo evidenti, troppo cristalline per non apprezzarle. A volte però ci vuole qualcos’altro. Proprio, ancora una volta, come capitò a Baggio in non pochi momenti della sua carriera: il campo tradiva, ma la gente no. In Nazionale, però, non sbaglia un colpo. Landon prende parte a sei edizioni della CONCACAF Gold Cup (2002, 2003, 2005, 2007, 2011 e 2013), trionfando in quattro occasioni e arrivando sul podio nelle altre due. Due sono invece la presenze nella Confederations Cup (2003 e 2009). E poi ci sono i Mondiali. Donovan è il trascinatore degli yankee nelle edizioni 2002, 2006 e 2010: in Corea e Giappone viene eletto miglior giocatore giovane del torneo e i suoi gol fanno esultare di gioia i tifosi a stelle e strisce. Poi, ancora una volta come accadde a Baggio, una delusione: il 23 maggio 2014 il ct Jurgen Klinsmann lo esclude dalla lista definitiva dei calciatori che poi hanno partecipato ai Mondiali in Brasile, dichiarando che il giocatore fosse indietro con la preparazione atletica.

E siamo arrivati (anzi, tornati) a dicembre. L’addio al calcio, la tristezza, l’immensa gratitudine, l’idolatria. Poi, ieri, l’annuncio: “Ritorno a giocare”. Le parole adesso sono superflue. Ci limitiamo a un semplice “grazie”. Grazie, Capitan America. E bentornato.

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