Come i Galaxy hanno vinto la sesta MLS Cup
I Los Angeles Galaxy hanno vinto la MLS Cup, la sesta della loro storia, la prima dopo dieci anni, e lo hanno fatto, al contrario di quanto successo nella finale di Western Conference, imponendo il loro modo di giocare sulla partita. I New York Red Bulls, una franchigia originale della MLS, come i Galaxy, pure alla ricerca del loro primo trofeo nella storia, volevano quanto più possibile assomigliare a Seattle, una squadra chiusa capace di colpire in ripartenza, ma fin dai primi minuti i losangelini padroni di casa hanno saputo dettare il ritmo dell’incontro, aprendosi spazi in una difesa scombussolata come quella dei Red Bulls. E per farlo, non hanno neanche avuto bisogno del loro principale apriscatole.
Il grande tema nei giorni precedenti alla partita, infatti, riguardava come i Galaxy avrebbero provato a sostituire Riqui Puig, anche se sarebbe meglio dire, vista la smisurata e irripetibile importanza dello spagnolo nell’undici di Greg Vanney, come i Galaxy sarebbero cambiati per compensare l’assenza di un giocatore eliocentrico come l’ex Barcellona senza per questo perdere la propria identità di gioco. Qui le strade a disposizione di Greg Vanney divergevano in due direzioni, una più conservativa e una più offensiva.
La prima voleva Reus, oppure Diego Fagundez, la cosa più vicina ad un vice-Puig che esista nei Galaxy, a occupare la posizione nello scacchiere di Puig, con dietro due centrocampisti dai compiti più difensivi come Cerrillo e Mark Delgado. La seconda prevedeva un centrocampo similarmente offensivo come quello schierato nella partita precedente, con Fagundez al posto del catalano e Reus nella posizione occupata anche contro Seattle, con l’uruguagio che avrebbe potuto mantenere la stessa flessibilità nel muoversi, la ricerca del pallone per farlo avanzare in ogni zona del campo. Proprio nel suo essere dappertutto sta la grandezza di Riqui Puig, che quest’anno è stato l’unico giocatore in MLS a totalizzare almeno il 12% dei tocchi della propria squadra, e che guida la classifica dei tocchi di palla con più di duecento tocchi di vantaggio sul brasiliano Artur e quattrocento sul compagno Maya Yoshida, terzo in classifica.
All’annuncio degli undici titolari, invece, Greg Vanney aveva stupito tutti: sì, il centrocampo era quello formato da Cerrillo e Mark Delgado, più bravo a bilanciare le diverse anime della squadra, ma il titolare e presunto erede di Puig era Gaston Brugman. Lo scorso anno Brugman formava insieme a Puig la cerniera di centrocampo dei Galaxy, un reparto che toccava un numero insensato di palloni, ma che allo stesso tempo non provvedeva alcun filtro alle avanzate avversarie. Quest’anno, infatti, l’uruguagio ex Pescara e Parma ha rapidamente perso il posto da titolare ai danni di Cerrillo, ventiquattrenne ex Dallas dal motore interminabile e solidissimo difensivamente, ed era apparso poco.
Eppure, a partita finita, proprio Gaston Brugman ha alzato il titolo di MVP della finale, e lo ha fatto mostrando la sua più verace imitazione del compagno di reparto infortunato. Lo abbiamo visto subito, con lo splendido assist con cui Joseph Paintsil si è inserito nel buco lasciato dalla difesa dei Red Bulls per il gol dell’1-0. L’errore degli ospiti è una conseguenza del sorprendente cambio che anche Sandro Schwarz ha impresso all’undici iniziale, nel suo caso però costretto dalle circostanze. Nella rifinitura pre-partita è stata confermata l’assenza dell’eroe della finale di conference, Andres Reyes, l’unico dei suoi esperto nel fare il centrale di una difesa a tre. Al suo posto Noah Eile, molto più abituato ad una difesa a quattro e, all’interno di essa, a difendere in avanti. Su una uscita per anticipare il pallone si è creato il gap da cui è passata la rete del vantaggio.
Altro errore di concetto, seppure di segno opposto, quello del 2-0, sulla discesa di Joveljic che non viene seguita da nessuno, se non da uno Sean Nealis che però parte da troppo lontano per riuscire a recuperare, proprio per il terrore di lasciare altri spazi alla corsa di una delle ali terribili dei Galaxy, questa volta Gabriel Pec.
Proprio il brasiliano si è segnalato per un’interpretazione tutta sua della partita, all’insegna della continua ricerca di una giocata spettacolare, dell’ankle-breaker, del dribbling che toglie il respiro all’avversario. Dal suo lato, i Galaxy si sono sfogati ma soprattutto hanno fatto sfogare i Red Bulls, e la sua sicurezza nel trattenere il pallone ha rappresentato per i padroni di casa e futuri campioni una coperta di Linus a cui affidarsi nelle situazioni in cui far risalire il pallone poteva essere complesso. Particolarmente impressionante la sua giocata a inizio dei minuti di recupero del secondo tempo, in cui con una sua corsa in linea retta ha risalito praticamente tutto il campo, avvicinandosi a creare un’occasione pericolosa ma soprattutto allontanando il pallone dalla propria area, semplicemente lanciando il pallone in avanti e rincorrendolo più velocemente di chiunque altro.
Dalla parte dei Red Bulls, il piano per vincere la partita non poteva prescindere da due fattori: le performance delle loro star e l’attaccare sui calci piazzati. Quest’ultima opzione ha, almeno parzialmente funzionato. Se i Red Bulls sono rimasti in gara, hanno rimesso in piedi una partita che gli stava sfuggendo di mano rendendola invece abbastanza equilibrata da regalarci uno dei secondi tempi più tesi ed emozionanti della storia recente dei playoff, è perché hanno saputo creare pericoli, e un gol, da calcio d’angolo, sfruttando anche la scarsa preparazione dei Galaxy, per cui questo è un tallone d’Achille da inizio anno.
Le stelle però hanno faticato: Lewis Morgan è stato spettatore non pagante della partita, un passeggero più somigliante ad un cervo in tangenziale che a un silenzioso portaborse di prima classe. Emil Forsberg è stato un pezzo utile nel creare occasioni, ma i playoff sono sempre decisivi, e, nell’opinione di chi vi scrive, il modo migliore di decidere un torneo, perché è lì che i giocatori più forti si separano dalle masse: facendo giocate decisive nei momenti decisivi. E Emil Forsberg quell’occasione l’ha avuta, ma l’ha spedita a fondo campo pur con il tempo e lo specchio della porta aperto a più opzioni per superare John McCarthy.
A dispetto dell’idea per cui il sample più grande dovrebbe rendere i risultati della regular season più “giusti”, la storia della MLS ci dimostra che spesso l’eccellenza di una squadra viene dimostrata ai playoff, quando le migliori si sfidano tra di loro e i margini di errori più bassi fanno uscire fuori i campioni.
Per i Galaxy, per tutti i Galaxy, questa è una vittoria gigantesca. Non solo per il proprietario Phil Anschutz, che per la sesta volta vede i suoi alzare il trofeo che porta il suo nome. Ma anche e soprattutto per Will Kuntz, il vero artefice di questa impresa, il dirigente venuto dagli Yankees – e dai rivali di LAFC – che nel giro di due finestre di mercato ha saputo rivoluzionare questa squadra nonostante avesse iniziato a lavorare quando ancora i Galaxy erano sottoposti a limitazioni per vecchie violazioni del cap.
Ma ancora di più è il trionfo dei tifosi e del tifo organizzato, coloro che lo scorso anno avevano iniziato una protesta, poi vincente, per allontanare dalla squadra il GM Chris Klein, artefice dei dieci anni deludenti della franchigia, le cui dimissioni hanno poi portato ad un ruolo aumentato da plenipotenziario per lo stesso Kuntz, rendendo così i tifosi artefici dell’arrivo dell’artefice di questo trionfo, e per la proprietà transitiva artefici stessi della festa che ha coinvolto la loro squadra nello stadio di casa. I Galaxy sono tornati, e con loro in vetta la MLS è una lega migliore. Lo sport ha bisogno di villain e nonostante Miami e LAFC, squadre giovani e ambiziose, si siano giocate molto bene la possibilità di vestire questa corona, i Galaxy, per i trofei acquisiti negli anni e il loro ruolo nella crescita della lega, per la loro iconicità, rappresentano il villain perfetto della MLS. E tutti quanti, il prossimo anno, saranno ancora più esaltati dalla possibilità di sconfiggerli.
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