I Columbus Crew hanno vinto la loro terza MLS Cup

(Photo by Patrick Smith/Getty Images)

Nel suo Come pensano le foreste, l’antropologo della McGill University di Montreal, Eduardo Kohn, racconta come, partendo dalle sue esperienze di campo in Amazzonia, abbia potuto constatare come questi organismi, o queste raccolte di organismi, vivano in un universo di relazioni non dissimile dal nostro e con cui interagiscono continuamente. Io non so se le foreste o altri elementi dell’ambiente al di fuori dell’uomo possano dire di pensare, e molti critici dell’opera di Kohn hanno sostenuto che l’idea stessa di pensare presentata nel libro sia fin troppo semplicistica e assegnata con molta facilità. Ma a volte sembriamo essere in grado di aprire finestre di connessione con entità che non dovrebbero condividere la nostra stessa concezione di vita, e quelle rare interferenze ci fanno chiedere se non siano momenti a cui possiamo accedere con più continuità.

Quando la pioggia ha incominciato a bagnare alacremente il terreno del Lower.com Field di Columbus, nonostante fosse stata abbondantemente prevista dai vari servizi meteo, il suo arrivo mi ha scioccato. È come se mi avesse risvegliato da una fase di trance. I Crew, padroni di casa nella finale di MLS Cup, erano appena passati in vantaggio per un rigore concesso dopo fallo di mano di Diego Palacios, difensore di LAFC, trasformato da Cucho Hernandez. La pioggia non sembrava casuale. Con le urla dei ventiseimila del nuovissimo stadio di Columbus che si intensificavano, con il fuoco che sembrava uscire dalla frizione dei tacchetti dei giocatori con il terreno, come a spezzare il logico freddo di un autunno in Ohio, la pioggia sembrava semplicemente interessata ad unirsi alla festa. Le gocce, dal loro alto regno su una placida poltrona bianca, forse annoiate dall’attesa, si sono volute accodare alle urla. Il loro ticchettare sul terreno di gioco così incessante, il loro spessore così inusuale da sembrare qualcosa di più di incolore.

Mi piace pensare che la pioggia abbia deciso di sua spontanea volontà, e dunque abbia pensato, di sostenere i Columbus Crew di Wilfried Nancy nella loro strada verso la MLS Cup, forse anch’essa innamorata, come il sottoscritto, della profondità e della densità dei loro concetti, dallo stile delle loro azioni, o più semplicemente dalla prestazione dominante che stavano mettendo in campo. Pochi minuti dopo il suo arrivo, Columbus avrebbe raddoppiato grazie ad una rete di Yaw Yeboah su gran filtrante di Malte Amundsen, coronando una strepitosa manovra di possesso da una delle migliori squadre in MLS con il pallone tra i piedi. Non c’è bisogno di evitare gli spoiler: cinquanta minuti di gioco dopo quell’azione, i Columbus Crew avrebbero vinto la MLS Cup 2023, la terza nella loro storia, la seconda dopo essere stati salvati da una rilocazione ad Austin dai propri tifosi.

Nella settimana precedente alla partita, Wilfried Nancy ha riferito alla stampa che, nei giorni di preparazione per l’incontro più importante dell’anno e della sua intera carriera, si era “sentito inutile”. Non lo intendeva in maniera negativa. I giocatori ormai avevano digerito perfettamente i suoi concetti tattici, erano perfettamente in grado di operare all’interno del sistema e consapevoli dei momenti in cui sarebbero dovuti uscirne. La più consistente parte del suo lavoro era terminata, non c’era più nulla che potesse aggiungere ai suoi senza spezzare qualcosa nei delicati equilibri di una squadra.

Spesso ci si chiede quale e quanto sia il reale apporto di un allenatore ad una squadra. È chiaro ed evidente a tutti che gli allenatori non scendano sul terreno di gioco né telecomandino come macchinine i propri calciatori, ma allo stesso tempo sono loro responsabili delle relazioni che si vengono a creare tra i giocatori in base a chi e a in quale luogo del campo chiede loro di operare. Senza contare tutto quel necessario lavoro di mediazione e trattative che l’allenatore fa nello spogliatoio e che è, per evidenti ragioni, a noi invisibile. Io, personalmente, sono dell’idea che l’allenatore sia abbastanza importante e decisivo nelle sorti di una squadra, ma allo stesso tempo ritengo che il modo in cui lo sia non si avvicini a quella che è la descrizione che viene fatta da molti di coloro che gli assegnano un valore simile al mio. L’allenatore è un batterista. Lui controlla il tempo, lui dà il via alla musica, non si può andare avanti senza la sua guida, ma c’è tanto, quasi un’intera dimensione, un nuovo piano d’analisi, a cui lui neanche può accedere.

Se un allenatore batte il ritmo giusto, dunque, deve assicurarsi di aver scelto musicisti che siano intonati o che sappiano accordare bene i propri strumenti, e che i metodi di tutti gli altri componenti della band siano complementari. Se un allenatore sceglie bene la propria compagnia, quasi non ci sarà neanche bisogno di avere una setlist prestabilita. Tutti si muoverebbero in maniera uniforme. E i Columbus Crew hanno dimostrato in questa stagione di essere una band affiatata. Dopo la vittoria della coppa, intervistato da Katie Witham durante i festeggiamenti, Aidan Morris, centrocampista reduce da una partita stratosferica e da una dimostrazione di assoluta onnipotenza su slalom alla Stenmark in occasione del rigore del vantaggio, ha risposto riguardo alla preparazione della partita e alla ferocia con cui i suoi avevano aggredito i losangelini campioni in carica, costringendoli a non respirare: “non è mai una questione di avversario, riguarda soltanto noi”.

Il ritmo di Columbus è il ritmo di una foresta, è il passo di milioni di differenti organismi che si muovono all’unisono senza intralciarsi e senza rendersi conto della presenza di forme di vita altrui, come coreografati in un balletto che si auto-sostiene e che, senza malevoli influssi esterni, può durare miliardi di anni. Tutti quanti parlano la stessa lingua, anche quando in realtà non lo fanno necessariamente. Durante le stesse interviste post-partita, il DP e MVP della finale Cucho Hernandez ha risposto in spagnolo ai microfoni del MLS Season Pass, ma ci ha tenuto a dire – e a ripetere – una parola in inglese: “mentality”, mentalità. Lungo tutto l’arco di una stagione quella parola, come un tarlo, si era annodata all’interno della sua testa, aggrappata al cervello come se temesse di essere risucchiata nel naso. Noi non avremo accesso allo spogliatoio, come già detto, ma sappiamo che perché venisse fuori così facilmente in un momento in cui naturalmente le idee sono così confuse, doveva essersi ripetuta con ritmo martellante sulla corteccia cervicale del colombiano, probabilmente proprio per merito di Nancy.

Nei secondi immediatamente successivi alla vittoria del titolo, Wilfried Nancy ha riferito ai microfoni di Apple TV una citazione che farebbe gongolare Hollywood. “L’impossibile è solo un’opinione”, ha detto, a stento trattenendo le lacrime. Questa, però, non è semplicemente la frase di un underdog che strappa fuori l’inaspettata vittoria, come quel Buster Douglas, nativo di Columbus, che ha aiutato a portare la MLS Cup in campo prima della partita. Columbus, come minimo per il fattore campo, partiva quantomeno alla pari con Los Angeles FC. Vista la storia di questi Crew, è un diretto attacco alla nostra scarsa capacità di immaginazione, all’estrema settorializzazione a cui abbiamo costretto il nostro sport. Guardando i giocatori che nella fase decisiva della stagione – diciamo gli ultimi sei mesi – hanno giocato consistenti minuti da difensori centrali nel sistema a tre di Nancy, i giocatori che avevano occupato quella stessa posizione nel resto della loro carriera prima del 2023 erano due in tutto, e tra gli esterni di difesa il numero scendeva ad uno.

Wilfried Nancy, una delle menti più originali del calcio odierno, chiede versatilità ai suoi giocatori. Ma la versatilità non è un dato acquisito, non è un principio assodato. Se si è pronti a viaggiare al ritmo di un tecnico, la versatilità è un risultato dei concetti di gioco, una conseguenza dell’implementazione di un sistema chiaro. Tutti diventano più versatili perché anche la paura data dall’occupare zone di campo a cui non si è abituati scompare quando i compiti vengono assimilati. È un lavoro di educazione, non una questione di meccanica ripetizione, e richiede al maestro di porsi su un piano orizzontale rispetto agli alunni, come se facesse lezione da un banco anziché dalla cattedra. Non c’è verticalità, non c’è imposizione.

Dietro la vittoria della MLS Cup da parte dei Columbus Crew c’è tanto di più di quello che possa dire il campo. C’è un’organizzazione eccellente top to bottom, che sa presentarsi come un modello per il resto della lega – e se la MLS è una copycat league, aspettiamoci che qualcuno li voglia seguire – c’è un lavoro profondo che ha avuto inizio nella off-season di quasi riprogrammazione completa dei principi calcistici dei giocatori in rosa, c’è una squadra forte che ha imparato con il tempo a conoscere sempre di più la sua reale forza. Ci sono grandi individui ma, soprattutto, c’è la forza esplosiva e rigenerante del loro scontro, la fantasia bellissima e mai vista prima del nodo uscito fuori dalla combinazione delle loro corde.

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