Ben Olsen sta dipingendo dei nuovi Houston Dynamo
Non tutti lo sanno, ma negli ultimi anni Ben Olsen ha intrapreso l’hobby della pittura. Anzi, mi correggo, Ben Olsen è diventato, anche se di recente solo part-time, un pittore. Perché l’ex centrocampista e allenatore di DC United è veramente bravo. Bravo come è bravo chi riesce a vendere le sue opere, neanche per cifre troppo banali, e che volendo potrebbe badare al proprio sostentamento grazie a tele, tempere e spray. Tra i suoi vari pezzi, particolarmente notevole è il suo omaggio a quella che di fatto è stata la sua casa per quasi metà della sua vita, dal 1998 al 2018, il Robert F. Kennedy Stadium di Washington, base di DC United dalla sua fondazione fino alla costruzione del nuovo Audi Field.
La pittura non è un ingresso recente nella vita del tecnico. Già da calciatore, quando era alle prese con i numerosi infortuni alla caviglia che ne hanno limitato e accorciato la carriera, Ben Olsen aveva sfruttato la pittura come via d’uscita dal calcio, o anche solo come attività a cui dedicare del tempo in una fase della propria vita in cui era stato costretto all’inattività. Da lì aveva acquisito sempre più importanza, ma lo stesso Olsen ha cercato quanto più a lungo possibile di tenere separati questi due mondi, soprattutto nel suo quasi decennio alla guida di DC United, come se non si aspettasse che i tifosi fossero in grado di accettare una sua passione al di fuori del calcio.
Poi, verso la fine di una durissima stagione 2020, le strade di Olsen e DC United si sono separate, e così dopo venticinque anni passati a svegliarsi la mattina e a pensare come prima cosa al calcio, Ben Olsen ha incominciato a vivere le proprie mattinate chiedendosi come arrivare il più velocemente possibile al proprio laboratorio di pittura, nel quartiere capitolino di Truxton Circle. “Mi sono detto che quest’anno è importante per me dare uno sguardo ad alcune differenti situazioni prima di rientrare nel mondo in cui ero”, ha detto Olsen in un’intervista a The Athletic, “perché è tutto passato così velocemente. Questi dieci anni, o per certi versi, quei vent’anni, sono passati così velocemente. Vivevo la vita percorrendo una strada così stretta che adesso mi sembra di poter espandere ciò che sono. Posso provare un sacco di cose nuove perché quest’anno ho il lusso di farlo, di capire che aspetto avrà la prossima decade della mia vita”.
Estremamente provato a livello mentale dalla professione di allenatore, Olsen ha preso la decisione di non inseguire subito un nuovo lavoro, ma di prendere le distanze e rivalutare tutto con calma. E almeno dalle beghe più strettamente di campo Ben Olsen si è allontanato per due stagioni intere prima di considerarsi di nuovo pronto ad un incarico – nel frattempo, tra il 2021 e il 2022, è stato presidente delle Washington Spirit, con cui ha vinto un titolo NWSL, ma quello era un incarico dirigenziale. Lo scorso autunno Ben Olsen è stato annunciato come il nuovo tecnico degli Houston Dynamo in sostituzione di Paulo Nagamura, durato neanche una stagione nel suo primo incarico da capo allenatore in prima squadra.
La mossa del general manager Pat Onstad era stata considerata deludente, soprattutto perché autorizzata da una nuova proprietà che aveva annunciato grandi ambizioni ma che, con l’assunzione di un tecnico considerato da molti appassionati come parte di un’era geologica già superata dalla MLS, non sembrava veramente intenzionata a far seguire alle parole i fatti. Ma quell’atteggiamento era forse indicativo del fatto che con la crescita della lega molti di coloro che la seguono son disposti a far invecchiare le cose molto più velocemente di quanto non sarebbe corretto fare, anche arrivando ad ignorare il contesto dietro a certe situazioni.
Ben Olsen è ancora un allenatore giovane pur contando già su un decennio d’esperienza, avendo recentemente compiuto quarantasei anni, coetaneo anche di alcuni “nomi nuovi” come Wilfried Nancy e Bradley Carnell, e sì, certo, il suo decennio a DC United non è stato dei più esaltanti, ma gli ultimi anni sono stati difficili da sostenere, e caratterizzati anche da un calcio non molto appariscente, anche a causa di una proprietà che si è rifiutata di spendere le cifre necessarie per mantenere la franchigia competitiva in una lega in crescita, costringendo Olsen a lavorare con un materiale umano più adatto alle barricate che ad altro.
Pur mancandone una dimostrazione sul lungo periodo, c’era fin dai tempi del suo lavoro nella capitale una conoscenza aneddotica del fatto che, almeno in uno scenario ideale, le idee di gioco di Olsen fossero più ambiziose, più offensive e più a viso aperto di quanto non gli fosse riconosciuto, e pur con qualche difficoltà, questa sua prima stagione in Texas sta dimostrando esattamente questo. Gli Houston Dynamo, e fa strano dirlo visto che non succedeva da almeno un decennio, sono la squadra del momento da seguire in MLS – con l’eccezione di una certa franchigia in Florida, ma diciamo che “eccetto Inter Miami” diventerà un ritornello molto popolare nei prossimi anni, quindi eviteremo di ripeterlo oltre – e in una Western Conference incasinata che non sembra voler trovare una conformazione stabile, sono i party crasher arrivati con le taniche di birra per spezzare la noia della serata e scombinare i piani di tutti gli altri ospiti.
Real Salt Lake puntava sulla ripartenza della MLS per imporsi come una delle potenze della Western Conference. Due sconfitte consecutive per mano di Houston ne hanno minato le certezze
Ad oggi i Dynamo siedono al quinto posto dell’Ovest, con la quarta miglior difesa della Conference e, a bilanciare lo squilibrio tra le due posizioni precedentemente citate, il sesto miglior attacco. Anche le statistiche più avanzate li posizionano come una squadra di livello medio-alto e qualora andasse proprio male, comunque sempre solidamente middle of the pack. Anche a livello stilistico, la squadra sembra privilegiare un trasformismo capace di adattarsi alla vasta gamma di condizioni che si possono venire a trovare durante una stagione in Major League Soccer, dal tempo al campo alle idee tattiche degli avversari. In questo senso particolarmente utile è stata la presenza di una persona come Ben Olsen che conosce questa lega al livello di pochi altri che ha permesso di navigare attraverso le torbide acque di una ricostruzione.
“Per quel che riguarda la nostra identità di gioco, la stiamo ancora cercando”, ha detto il tecnico a 90min.com, “ma ad ora la nostra identità è essere malleabili e adattabili perché non giochiamo alla stessa maniera quando andiamo in trasferta a Seattle sul sintetico o quando abbiamo tre partite a settimana […] Ma all’interno di questo essere adattabili dobbiamo avere una vera struttura e alcuni principi e alcune idee a cui tutti quanti possiamo appendere il nostro cappello quando l’arbitro fischia”. Al di là della particolare metafora, i segni di questi principi comuni e di questa struttura si possono vedere nella squadra, pur essendo relativamente semplici e adatti per una squadra arrivata a questa nuova stagione dopo il secondo rebuild in due anni e con diciannove nuovi giocatori.
Per gli Houston Dynamo comincia tutto nella metà campo difensiva, e un investimento importante nell’ex Midtjylland Erik Sviatchenko è stato fatto per aggiungere esperienza e ordine. Il danese non è necessariamente uno di quei centrali difensivi che ti salta addosso, ma è un leader, una figura di comando con un passato come capitano di una delle squadre più all’avanguardia della Danimarca, che sappia tappare i buchi e garantire più sicurezza a chi volesse dedicarsi alle scorribande offensive. La solidità offerta da Sviatchenko è di fondamentale importanza anche perché, con la sola eccezione di Daniel Steres, che comunque è un centrale adattato a terzino, gli esterni di difesa sono tutti particolarmente offensivi come approccio.
In particolare Griffin Dorsey è un ex esterno alto a livello universitario con Indiana che tra i professionisti si è dovuto adattare a partire qualche metro più indietro per riuscirsi a ritagliare un po’ di spazio, mentre il due volte campione MLS – prima con Atlanta poi con Los Angeles FC – Franco Escobar è fin dal suo arrivo nella lega riconosciuto come uno dei migliori passatori nella sua posizione, un jolly che può essere schierato su entrambe le fasce e che colleziona molti tocchi di pallone a partita, inserendosi nella fase di costruzione per far risalire il pallone.
Ma quello che è veramente rinfrescante – e con il caldo di Houston, è proprio la parola giusta – nel vedere questa squadra giocare è come siano riusciti a trasformare la mancanza di struttura in una forza, soprattutto nella manovra. Houston schiera tutti giocatori molto tecnici ma anche molto strani, e la coabitazione tra le posizioni che occupano in campo e i loro istinti crea accoppiamenti rapsodici, quasi jazzistici, al di fuori di una struttura preordinata. Non si possono paragonare questi Dynamo alla fluidità del sistema asistematico di Fernando Diniz, che semplicemente si fida della capacità di giocatori iper-tecnici di trovare sempre il modo di associarsi anche a costo di stringersi e allargarsi rassomigliando ad una fisarmonica, ma è un modo di giocare particolarmente avverso alla rigidità, che valorizza i giocatori chiave di questa squadra.
Primo fra tutti, non si può non citare Adalberto Coco Carrasquilla, forse il giocatore più divertente da vedere ad Ovest. Il panamense, miglior giocatore dell’ultima Gold Cup in cui ha semplicemente dominato ogni singola partita sulla strada verso la storica finale dei suoi, è un passatore con angoli e visioni incredibili, è elegante nel dribbling ed ha anche una tecnica di tiro di bellezza abbacinante. La sua è sempre la posizione media più egregiamente distante dall’interpretazione tradizionale del ruolo che teoricamente occupa.
Schierato nominalmente come esterno destro, Carrasquilla entra spesso ben oltre il mezzo spazio fino ad occupare quasi una zona centrale lasciando a Dorsey ampie praterie per tornare a fare l’ala e soprattutto avvicinandosi ad altri giocatori di grande tecnica come Bassi e, soprattutto, Hector Herrera per combinare con loro e creare spazi e superiorità tramite la circolazione della palla.
L’altro grande leader di questa franchigia non può che esserne il suo nome più riconoscibile a livello mondiale, il centrocampista ex Porto e Atletico Madrid che grazie alle sue ottime prestazioni si è guadagnato un posto in una selezione messicana di Jaime Lozano pure molto ringiovanita nelle scelte dopo il fallimento della vecchia guardia al mondiale. In una lega di straordinari numeri sei e numeri dieci, Herrera è a tutti gli effetti un uomo ovunque del centrocampo Dynamo, un box to box che, se non fosse una battuta troppo scontata, direi che porta energia a tutta la squadra.
Dopo una prima mezza stagione al suo arrivo lo scorso anno abbastanza disastrosa, Herrera è stato incoraggiato e spinto da Olsen a prendersi un ruolo da leader, e il messicano ha risposto con prestazioni che da lui non si vedevano da molto tempo. Spesso anche più avanzato del trequartista nel teorico 4-2-3-1 di Olsen, il messicano è attivissimo in ogni zona di campo, ed è l’altro grande eretico rispetto all’ordine prestabilito, visto che la sua posizione media lo mette spesso quasi come una parte di un immaginario tridente offensivo.
A completare il trio di giocatori più pericolosi è Amine Bassi, il miglior marcatore della squadra, anche se quasi tutte le sue reti sono arrivate da calcio di rigore. Il trequartista francese occupa almeno teoricamente lo slot da numero 10, ma è un tipo di giocatore molto diverso rispetto a quelli che dominano la lega partendo da quella zona di campo. Bassi è molto più orientato alla ricerca del gol che a quella del passaggio, spesso, soprattutto in fase di pressing, si alza sulla stessa linea dell’unico attaccante come a formare un 4-4-2 in fase difensiva e non è insolito vederlo raccogliere i filtranti a tagliare la difesa di Carrasquilla.
Una delle cose che Ben Olsen ha capito fin da subito riguardo a questa squadra è che per valorizzare tutto questo movimento e questa versatilità, dunque, una classica interpretazione del ruolo di centravanti non potesse essere sostenibile e avrebbe contribuito solo a creare confusione e ingorghi nel traffico. Per questo fin dall’inizio della stagione il grande acquisto della stagione 2022, il Designated Player Sebastian Ferreira, miglior marcatore della franchigia e unico in doppia cifra nell’anno passato, è stato epurato, raccogliendo a malapena minuti dalla panchina nei suoi primi mesi in campo, e venendo ceduto in prestito quest’estate al Vasco Da Gama.
Al suo posto, Olsen ha privilegiato giocatori più piccoli e veloci, quasi esterni adattati nella posizione, come il nuovo acquisto Aliyu, arrivato via Under 22 Initiative ma non del tutto convincente come titolare – è sembrato e continua a sembrare molto più a suo agio, in questa fase della sua carriera, come game changer in uscita dalla panchina ad alzare il voltaggio della squadra – o come un ritrovato Corey Baird, con l’ex Real Salt Lake che sta avendo la sua miglior stagione da quando vinse il titolo di rookie dell’anno, venendo per la prima volta dopo anni spostato al centro dell’attacco.
Hector Herrera riceve il pallone praticamente nella posizione di un attaccante aggiungo, Carrasquilla, in questa azione non coinvolto, gioca molto centrale per lasciare lo spazio a Dorsey e combinare meglio con Herrera e Bassi
Il percorso dei Dynamo sotto Olsen non è stato segnato da un successo immediato, ma con il ritorno della MLS dalla pausa per la Leagues Cup, Houston si è subito presentata come una squadra capace di contendere su più fronti, arrivando in finale di US Open Cup grazie ad una vittoria impressionante per solidità mentale e carattere in semifinale contro Real Salt Lake, che pure usciva dal mercato estivo come una delle franchigie più ambiziose.
Il ritorno in finale di coppa è un momento catartico per tutta l’organizzazione, e non solo, o addirittura non particolarmente perché dall’altra parte si troverà quella Inter Miami che sembra destinata a vedersi cadere tra le mani ogni trofeo da qui ai prossimi due anni solo per la presenza in squadra di Lionel Messi. La US Open Cup è l’unico trofeo nel palmares da allenatore di Ben Olsen, ed è arrivato nelle circostanze più particolari: nel 2013, infatti, il prodotto da Virginia guidò DC United sia a quella che è la singola peggior stagione di una squadra in MLS, ma anche alla vittoria di quello che, ancora oggi, è l’ultimo trofeo sollevato dalla franchigia capitolina.
Allo stesso tempo, la coppa nazionale statunitense rappresenta un ricordo memorabile anche per gli Houston Dynamo: approdati in MLS dopo la relocation dei San José Earthquakes in Texas, i Dynamo hanno vinto due MLS Cup consecutive stabilizzandosi come una delle potenze della lega, ma l’espansione e la crescita della lega li hanno lasciati indietro, e ad oggi la loro striscia di assenze dalla post-season è la più lunga dell’intero campionato. In questo periodo di tempo difficile, però, forse l’ultimo grande momento di esaltazione legato alla franchigia risale proprio alla vittoria della US Open Cup del 2018, quando i Dynamo sconfissero 3-0 Philadelphia in trasferta nella finale, dopo aver sconfitto al turno precedente i nuovi arrivati nella lega di LAFC.
Per una franchigia e un allenatore che per tanti anni si sono portati dietro la reputazione di essere il simulacro di una MLS passata, da cui molti dei nuovi appassionati vorrebbero slegarsi, vincere un trofeo, e per di più farlo in casa della squadra più fotografata nella storia della lega, rappresenterebbe un momento di svolta e la conferma che tutta la loro voglia di rimettersi in gioco sia ben motivata. Anche arrivasse una sconfitta, e d’altronde sarebbe legittimo aspettarselo, visto che partono pesantemente sfavoriti, il fatto che Houston sia riuscita a tornare sopra un certo livello di rispettabilità e che lo stia facendo giocando un calcio spettacolare e, in tutto questo, il fatto che a guidarla ci sia Ben Olsen è già un segnale di enorme fiducia che l’intera organizzazione e i suoi tifosi possono mostrare verso il futuro.
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