Il percorso di Duncan McGuire è una lezione per tutto il soccer

Il Nebraska non è uno stato particolarmente riconoscibile né particolarmente notevole. È uno di quei tanti stati dai confini perlopiù squadrati che abitano le immense e sconfinate pianure nel nordovest degli Stati Uniti. Non sembra esserci qualcosa di particolarmente distintivo che permetta di separare il Nebraska dal Montana o da uno dei due Dakota. Anche in quella fascia di Stati Uniti notevole per non essere granché notevole, siede in secondo piano. Non è il primo stato delle primarie statunitensi come l’Iowa, non ospita il parco nazionale di Yellowstone come il Wyoming, le squadre di football universitario locale non giocano su un campo blu come i Boise State Broncos in Idaho. La bandiera del Nebraska è una normalissima bandiera blu con un logo bruttino al centro come per tantissimi altri stati, è a maggioranza repubblicana come praticamente la quasi totalità di quella regione, il suo punto più alto non è una montagna, o neanche una collina, ma semplicemente un punto in leggera pendenza al confine ovest dello stato con il Colorado, e il suo punto più basso il fiume Missouri al confine est dello stato, con Kansas e Missouri. Lo stato altro non è che un’infinita pianura inclinata la cui unica necessità è far scorrere i fiumi dalle montagne rocciose verso le pianure del sud senza particolari scossoni o cascate. Il Nebraska sembra così dedicato nel far passare la propria immagine di assoluta non-particolarità da avere come bevanda ufficiale il latte.

Eppure, il Nebraska è stato tutto tranne che silenzioso in questa stagione di MLS e, pur non essendo mai stato uno dei terreni più fertili del calcio statunitense, può contare su uno dei maggiori talenti espressi dal campionato negli ultimi mesi, e fa niente se, oltre a lui, non ci siano altri rappresentanti dello stato in tutta la lega. Il premio di rookie dell’anno in MLS non esiste più, ma questo non può essere troppo un problema per Duncan McGuire, che se continuasse così potrebbe anche essere un significativo candidato al premio sostitutivo di Young Player of the Year. Con ventiquattro presenze e dieci gol in tutte le competizioni per Orlando City, il nativo di Omaha, la città più popolosa del Nebraska, meno di cinquecentomila abitanti sulla sponda rigorosamente ovest del fiume Missouri, è diventato una parte integrante dell’undici titolare di Oscar Pareja, riuscendo anche a strappare il posto al Designated Player austriaco Ercan Kara.

Chi segue la MLS non sarà sorpreso dal sapere che la sesta scelta all’ultimo SuperDraft sia riuscito a trovare una casa e ad imporsi subito come un fattore tra i professionisti proprio nella franchigia della Florida, perché in effetti pur esistendo tra i professionisti da meno di dieci anni Orlando ha già saputo sviluppare una reputazione come porto sicuro per centravanti grossi, forti e in uscita dal calcio universitario. All’inizio ci fu Cyle Larin, prima scelta al Draft nella storia della franchigia e in assoluto prima scelta del SuperDraft 2015. In tre stagioni, il canadese prodotto da UConn andò sempre in doppia cifra in MLS, guadagnandosi un trasferimento ai turchi del Besiktas e poi una carriera da giramondo in Europa che l’ha portato attualmente al Mallorca e, lo scorso inverno, a giocare i secondi storici mondiali della nazionale maschile canadese in Qatar. Poi venne il turno, già all’interno dell’era di Oscar Pareja, la prima ad aver reso veramente competitiva Orlando City, di Daryl Dike, con il prodotto da Virginia capace di guadagnarsi l’Europa dopo appena una stagione in MLS, prima impressionando al Barnsley e poi finendo al West Bromwich Albion, dove però è stato limitato dai tanti infortuni – ad oggi è fuori con una rottura del tendine d’achille.

Come Larin e Dike, McGuire è un colosso con un fisico da tight end, e tutti e tre appartengono a quel gruppo di quelle persone che ti dà l’impressione di aver mentito quando si è fatto misurare l’altezza perché uno del genere non può non essere alto almeno un metro e novantacinque – nessuno dei tre tocca neanche il metro e novanta. Anche il livello d’atletismo è quello di un giocatore di football, non nel senso di un dominio espresso singolarmente tramite una forza fisica debordante, ma tramite quella capacità quasi freakish di non essere limitato dalla propria struttura e di risultare eccezionalmente completo in quasi ogni caratteristica definibile come “fisica”. Duncan McGuire è incredibilmente agile, coordinato e snodato, è forse la persona più pesante e grossa a cui abbiate mai visto fare un front flip, è veloce, e in nessun momento quella massa di muscoli sembra in grado di impedirne certi movimenti. Ha grande rapidità di piedi, il footwork di chi deve liberarsi e ricevere sulla superficie di una monetina, capacità che gli sono di grande aiuto come attaccante. La sua tecnica è essenziale nel senso più positivo del termine, come studiata per mantenere la massima efficienza nelle situazioni richieste ad un centravanti, protezione del pallone, separazione e creazione dello spazio di tiro, anticipo del tentativo avversario di impedire la conclusione.

https://www.youtube.com/watch?v=6-Jl03baYLE

Fosse nato in una qualsiasi altra parte degli Stati Uniti, è possibile che Duncan McGuire avrebbe cercato la via di un altro sport. In fin dei conti, circostanze simili avevano allontanato anche i suoi due predecessori con la maglia dei Leoni della Florida da altre discipline più riconoscibilmente nordamericane. Cyle Larin è nato a Brampton, Ontario, la capitale calcistica del Canada, luogo di nascita di stelle della nazionale come Atiba Hutchinson, Junior Hoilett, Tajon Buchanan, Jonathan Osorio e, al femminile, Kadeisha Buchanan – nessuna relazione con Tajon, mentre a Dike il football era stato vietato dai genitori, originari della Nigeria, così come sconsigliato dall’ascendenza familiare, con un fratello e una sorella capaci entrambi di scendere in campo per le Super Eagles e con un cugino come l’ex Fenerbahce e Spartak Mosca Emmanuel Emenike.

Per McGuire, invece, quella circostanza ha radici ben più profonde, e trae origine da una decisione del 1942. Quell’anno infatti l’università di Creighton, in quel di Omaha, come molte altre in giro per il paese, sospese il suo programma di football a causa della Seconda guerra mondiale. Quando però la guerra finì, a Creighton il football non sarebbe più tornato. Da quel giorno, il football in Nebraska avrebbe preso la forma e il colore rosso dei Cornhuskers dell’università di Nebraska-Lincoln, che è senza dubbio l’entità sportiva più popolare e tifata nello stato. Agli abitanti della città più popolosa del Nebraska, di fatto, è stato posto il dilemma se tifare per quelli là nella capitale dello stato, a cinquanta minuti di macchina da Omaha, o magari supportare le piccole università locali come gli Omaha Mavericks, uno dei migliori programmi di wrestling del paese, o proprio i Creighton Bluejays, con una buona storia, pur priva di successi, in baseball, basket e, dal 1979, calcio.

La famiglia di Duncan McGuire, fin dalla più tenera età del centravanti classe 2001, ha scelto la seconda opzione, indirizzando direttamente la futura carriera del proprio figlio verso la palla rotonda anziché quella ovale dove pure, per caratteristiche fisiche, avrebbe potuto raccogliere qualche successo. Lo sport universitario è la connessione più stretta e profonda che un appassionato statunitense può stringere con una squadra del cuore, preferibilmente locale, soprattutto in stati come il Nebraska, e se dunque la storia di Duncan McGuire non può essere vista necessariamente come un’eccezione, certo lo è per il calcio NCAA, che ha faticato ad imporsi a livello di pubblico nonostante sia responsabile del ritorno degli uomini ai mondiali negli anni 90 e della nascita di una delle più grandi dinastie dello sport mondiale al femminile.

Nonostante abbia alcune delle atmosfere più esaltanti di tutto il calcio statunitense, e nonostante offra ancora oggi un importante flusso di talento, il college soccer è visto con scetticismo da una gran parte degli appassionati di calcio statunitense, è accusato di praticamente ogni male del soccer, e ogni sforzo calcolato di renderlo un prodotto affascinante e vendibile a livello televisivo è costantemente boicottato da leghe, squadre e tifosi che, inseguendo il sogno ridicolo di imitare pedissequamente l’Europa, preferiscono giocare a creare autentiche squadre di seconda o terza divisione che raramente durano più di un lustro anziché costruire e solidificare quello che già c’è di unico e autentico nella propria cultura calcistica. In ogni angolo del paese, ragazzi e ragazze crescono con il sogno di giocare per l’università locale, quella che hanno tifato i loro nonni e i loro genitori, esattamente come in tutto il mondo si sogna di rappresentare la propria squadra del cuore, eppure nel calcio a stelle e strisce, con poche eccezioni, questo scenario non solo si ripete con molta difficoltà, ma sembra anche scoraggiato nel tentativo di forzare un approccio che semplicemente non può funzionare in un terreno che non ha le basi culturali per farlo fiorire.

In questa situazione, Duncan McGuire rappresenta una bellissima eccezione. Il nativo di Omaha è cresciuto con il culto del Bluejays Soccer, un programma che poco prima della sua nascita aveva toccato il suo punto più alto, perdendo solo in finale il titolo nazionale del 2000, e che tra il 1992 e il 2016 ha mancato solo una volta la qualificazione al torneo NCAA. Con la sua famiglia, McGuire è stato abbonato al Morrison Stadium per quasi un decennio, assistendo a tutte le partite. In un’intervista con i media locali quando il suo nome ha incominciato a farsi strada come uno dei migliori nella scorsa stagione del college soccer, McGuire ha paragonato la sua soddisfazione nel giocare per Creighton con quella che hanno i giocatori quando riescono ad esordire in nazionale maggiore. Anche prima di venire reclutato dal programma di coach Johnny Torres, le idee del centravanti sul futuro sono sempre state chiarissime. Al liceo McGuire si è iscritto alla Creighton Preparatory School, una scuola che con la vicina università condivide il fondatore, John A. Creighton, i colori sociali, il blu e il bianco, e il nickname per le squadre sportive di Jays, declinato in Baby Jays per il liceo.

Con Creighton Prep – un’istituzione tale nella scena calcistica dello stato da detenere, insieme a Omaha South, il record di pubblico, 8200 spettatori, per una partita di calcio nel Nebraska, battendo il record dei Creighton Bluejays proprio nel loro stesso stadio nella finale, poi vinta da Omaha South, per il titolo statale del 2013 –  McGuire è diventato uno dei prospetti più seguiti dell’intero stato, conquistandosi molto presto una borsa di studio per l’università dei suoi sogni. All’epoca dei Baby Jays, il suo allenatore era arrivato a definirlo un gym rat¸ un topo da palestra, una persona ossessivamente dedicata al migliorare il proprio fisico e le proprie qualità a tal punto da scavalcare quasi costantemente i cancelli del campo da calcio del proprio liceo per allenarsi altre due ore al giorno nei tiri, sviluppando una resistenza e una dedizione che gli sarebbero state utilissime al piano superiore. Coach Johnny Torres, colui che l’ha reclutato per i Bluejays di Creighton, lo ha descritto come in possesso di “un motore incredibile”, un giocatore che non si ferma mai, sempre alla ricerca del prossimo tiro, capace di dimenticarsi immediatamente qualsiasi errore possa averlo fermato in precedenza. Torres, che è nello staff dell’università con vari ruoli dal 2007, ha imparato a conoscere bene McGuire negli anni, visto che per un intero decennio il ragazzo aveva partecipato ai camp estivi organizzati dal college: “è una bella notizia per me vedere un ragazzo locale entrare in squadra. Mi assomiglia nel senso che il sangue di entrambi è blu”, ha detto Torres, in riferimento ai colori sociali della sua alma mater di cui adesso è allenatore.  

Al college, comunque, ci è voluto tempo a McGuire per trasformarsi in qualcosa di più che semplicemente un corpo eccezionale dotato di buoni istinti: nella sua stagione da freshman non ha mai giocato, e tra seconda e terza stagione ha totalizzato appena cinque gol, mostrando se possibile anche un calo che avrebbe potuto creare preoccupazione, visto che quattro di quelle cinque reti erano arrivate in una seconda stagione allungata dalla pandemia. Nella sua quarta stagione, McGuire ha però effettuato un deciso salto di qualità. La sua stagione regolare si è conclusa con 13 gol in 16 presenze. Poi, con una prestazione esaltante da due gol a partita, McGuire ha guidato la sua squadra del cuore ad un titolo nella Big East Conference, ottenendo la qualificazione al torneo NCAA. Lì, le sue quattro reti hanno portato i Bluejays ai primi quarti di finale dal 2015 e alla prima partecipazione alla College Cup – di fatto le Final Four del calcio NCAA – in dieci anni. Le sue 23 reti in 24 presenze stagionali gli sono valse l’Hermann Trophy, il premio assegnato al miglior giocatore universitario del paese – l’equivalente calcistico dell’Heisman Trophy – un riconoscimento vinto solamente in un’altra occasione da un prodotto di Creighton, quando, nel 1997, il futuro allenatore di McGuire Johnny Torres lo vinse dopo aver portato per la prima volta l’università a quella stessa College Cup raggiunta da McGuire.

Il Nebraska non è assolutamente uno dei centri nevralgici del calcio statunitense, pur avendo saputo nel corso del tempo produrre giocatori interessanti, uno su tutti Jason Kreis, nativo di Omaha, tra i migliori marcatori nella storia della MLS e poi vincitore della MLS Cup da allenatore con Real Salt Lake nel 2009. All’interno di un programma, comunque, di buonissimo livello come Creighton, capace di tirare fuori ventinove giocatori con presenze in MLS nel corso della sua storia, prima di McGuire solo quattro di loro venivano dallo stato del Nebraska, con il migliore probabilmente identificabile in Brent Kallman, difensore di Minnesota United con un centinaio di presenze nella lega. In meno di una singola stagione tra i professionisti, dunque, Duncan McGuire ha saputo stabilirsi nell’élite assoluta del calcio nel Nebraska, appena dietro Kreis e probabilmente già davanti a qualsiasi altro prodotto da Creighton originario della zona. Il suo successo può rappresentare un cambiamento, e può farlo su più fronti.

In primo luogo, può aprire nuove frontiere per il calcio statunitense. Calciatori provenienti da stati meno notoriamente calcistici come McGuire e come Obed Vargas dei Seattle Sounders, nativo dell’Alaska, possono contribuire a far crescere lo sport nei loro stati d’origine: più stati riescono a contribuire alla player pool delle nazionali statunitensi, più variegata sarà anche a livello di tipologia di giocatori, di approcci allo sviluppo dei giovani, maggiore sarà la biodiversità del movimento calcistico nazionale. Ma forse il cambiamento più significativo che può arrivare dalla carriera di Duncan McGuire è quello di modificare a più livelli il rapporto del calcio statunitense con le istituzioni scolastiche, così fondamentali nel costruire l’impero sportivo statunitense, eppure, così dimenticate nel calcio.

Il centravanti di Orlando City non ha mai giocato in un settore giovanile della MLS Next – anche perché quest’organizzazione impedisce ai giocatori delle sue oltre 300 squadre di giocare al liceo – e pur avendo giocato per una squadra di club – l’Elkhorn SC – questa esperienza è sempre stata secondaria rispetto alla sua esperienza liceale e poi universitaria. Non è neanche l’unico ad alto livello nel soccer maschile, visto che lo stesso si può dire per Daryl Dike, Walker Zimmerman, Cristian Roldan e Matt Turner, per limitarsi ai più celebri. Il mezzo scolastico anche in presenza di settori giovanili di alto livello ha un grandissimo potenziale, perché non impone barriere economiche, ma soprattutto perché regala a questi calciatori l’orgoglio di rappresentare il proprio quartiere, la propria città, la propria regione, giocando per entità storiche della propria comunità, caricandoli anche di una responsabilità da leader, chiedendo loro di fare scelte complesse in campo esattamente come quelle che poi dovranno prendere tra i professionisti, abituandoli alla pressione di chi ha gli occhi del mondo addosso. È la cosa più vicina che possa esistere negli Stati Uniti al Grandoli, la piccola squadra in cui ha iniziato a giocare Lionel Messi, o alle migliaia di squadre di quartiere da cui sono partite le carriere dei migliori calciatori del mondo. È un bene che il calcio statunitense ha già tra le proprie mani ma che sembra voler gettare via, dirigendosi verso il modello di iper-professionalizzazione dei calciatori fin dalla loro infanzia che tanto successo nei maggiori club europei.

Ma il calcio, e lo sport in generale, è una questione culturale più che di decisioni calate dall’alto per la cosiddetta formazione d’eccellenza, ed è per questo che esperimenti come quello della nazionale qatariota o la crescita del calcio cinese sono destinati a fallire per forza: sono embrioni nati prematuramente, incapaci di resistere all’aria aperta e senza il dovuto nutrimento. Sono fantasie morte. La vera sfida del calcio statunitense maschile, l’unica che sarà decisiva per mantenere questa crescita degli ultimi tempi e trasformarla in qualcosa di duraturo e definitivo, è riuscire a tenere vivo quest’equilibrio, unire la creazione di una cultura allo sviluppo della formazione d’eccellenza. Non decidere di sacrificare la prima sull’altare della seconda.

Facebook Comments