Fuori dal sommerso – ep5
Se avete una qualsiasi domanda non solo sul calcio a Saint Louis ma in generale sul mondo del calcio negli ultimi, diciamo, sessant’anni, fatela a Bill McDermott. Un centrocampista due volte campione nazionale NCAA con i Billikens di Harry Keough nel 1967 e 1969, nei cinquant’anni successivi alla sua carriera sui campi universitari McDermott si è guadagnato il soprannome di Mr. Soccer tra molti appassionati statunitensi. Questo non solo perché dal 1972 lavora come speaker dell’Hermann Stadium per le partite casalinghe dei Billikens maschili e femminili, ruolo per cui qualche anno fa l’università gli ha intitolato la sala stampa del proprio stadio, o perché nel 1986, come giocatore dilettante, ha vinto la seconda US Open Cup nella storia del Saint Louis Kutis. Il soprannome, assegnatogli per la prima volta da Rick Wallace, conduttore radiofonico nella Saint Louis degli anni ’70, non è tale solo perché McDermott ha raccontato molti mondiali, inclusi quelli del 1994 e 1998 come commentatore tecnico, o perché ha una memoria calcistica enciclopedica che gli permette di recitare a mitraglietta la formazione della Polonia 1974 – secondo lui la squadra più sottovalutata nella storia dei mondiali – o di conoscere esattamente la giornata inaugurale del mondiale 1994. Bill McDermott è Mr. Soccer per tutte queste singole cose messe insieme e per una miriade di altri fattori, perché negli anni la sua passione e la sua dedizione al gioco anche in epoche in cui poteva sembrare stesse parlando ad un muro lo hanno portato a diventare il miglior storyteller del paese, la persona che, se lo lasci parlare senza interruzioni, può farti innamorare di qualcosa per la passione con cui ne parla prima ancora dei dettagli romanzeschi che tira fuori.
Nel 1979 a McDermott, già attivo come telecronista per Saint Louis University, venne chiesto di disegnare un logo per la nuova squadra di calcio professionistica della città, due anni dopo la rilocazione dei Saint Louis Stars della NASL verso Anaheim – dove presero il per nulla stereotipato nome di California Surf – ovvero i Saint Louis Steamers. Il logo da lui disegnato, una nave a vapore – e dunque in inglese steamboat – la cui chiglia sembra farsi tutt’uno con le onde che solca, tanto che è impossibile distinguere dove finisca il mare e dove inizi l’imbarcazione, avrebbe accompagnato gli Steamers per tutta la durata della loro avventura, diventando uno dei simboli più riconoscibili nella storia del calcio statunitense.
Oddio, usare la parola “calcio” per quello sport che giocavano gli Steamers forse è un’esagerazione. Insomma, avrebbero dato calci ad un pallone rotondo e segnato gol in una porta difesa da un portiere, ma per tutto il resto che avrebbe fatto da contorno alle loro partite sarebbe stato difficile definirlo calcio, tanto che se un ipotetico giovane calciatore nei tornei locali del CYC si fosse risvegliato dopo trent’anni di coma e la prima cosa che avesse visto fosse stata una partita degli Steamers sarebbe stato estremamente probabile vedere il suo cervello sciogliersi in una poltiglia fangosa fuoriuscente dalle orecchie. Le partite degli Steamers in effetti si giocavano al chiuso, e in particolare all’interno della Saint Louis Arena, un gioiello architettonico metà cattedrale e metà tendone del circo che non starebbe fuori posto come palazzo di un crudele imperatore in un videogioco steampunk, ma anche considerato questo dettaglio aggiuntivo avventurarsi nella seconda più probabile spiegazione – il futsal – non è esattamente la scelta più logica: il primo mondiale di futsal si sarebbe svolto solo quattro anni dopo la nascita degli Steamers e, insomma, non è che gli Stati Uniti siano ricordati come particolari pionieri dello sport.
La realtà è – e ve lo dico perché poveri, vi vedo dall’altra parte dello schermo scoraggiati e senza più soluzioni – che in effetti se siete arrivati a questo punto senza spiegazioni, non c’è indizio che possa togliervi dal vostro dubbio se non la soluzione finale dell’arcano. Se siete puristi, però, vi avviso, forse è meglio che il mistero resti per voi per sempre insoluto. Quello a cui giocavano gli Steamers si chiama indoor soccer ed ha rappresentato, per anni, l’unica viabile soluzione per garantire ai calciatori statunitensi non solo il professionismo, ma anche banalmente la possibilità di giocare nel proprio paese al di fuori del college.
La storia dell’indoor soccer è una delle rare storie di successo del calcio statunitense, ma è in effetti una storia di successo che è tale per il fallimento altrui. Se è vero che dal 1975, anno in cui la NASL iniziò ad organizzare con costanza tornei indoor per tenere i giocatori allenati durante l’inverno, si è sempre giocato almeno un campionato professionistico all’anno di indoor soccer, è anche vero che quel periodo rappresentò l’inizio della fine per la lega che, nel suo commiato finale, negli anni ’80, aveva cancellato il proprio campionato di calcio perché meno fruttuoso e troppo costoso rispetto all’indoor soccer. Inoltre per quanto in effetti sia notevole la continuità che ha potuto godere il movimento, è anche vero che non lo ha mai fatto sotto un singolo ombrello, ma lo ha fatto con il solito patchwork confuso e disordinato di leghe competitor fra loro e successore le une delle altre. Conseguenza di tutto questo sono un’infinità di tornei la cui vita o è durata pochi anni o è andata a singhiozzo, tanto da offrire molte pagine Wikipedia con lo stesso nome ma periodi temporali di esistenza diversi, e ad una collezioni di nomi che sono un cocktail di cringe, visionarietà e caro buon vecchio eccezionalismo americano. I Saint Louis Steamers, a confermare la litigiosità di questi tornei, non facevano parte della NASL Indoor, bensì della Major Indoor Soccer League, e sono la dimostrazione che, in effetti, nonostante tutto, ci sono tante storie di genuino successo nell’indoor soccer.
Pur non avendo mai vinto un’edizione della MISL – arrivati due volte in finale, furono sconfitti in due edizioni consecutive, 1981 e 1982, dai New York Arrows – gli Steamers hanno messo in campo nel corso degli anni alcuni dei migliori giocatori nella storia del campionato, tra cui il due volte portiere dell’anno Slobo Iljevski, un cittadino macedone – come Vlatko Andonovski, allenatore dello USWNT e anche lui trapiantatosi negli USA grazie all’indoor soccer – che a Saint Louis ha trovato una casa e che dopo trecento presenze con gli Steamers è rimasto in città giocando indoor anche per i Saint Louis Storm e i Saint Louis Ambush. Una volta ritiratosi Iljevski ha continuato a giocare a livello amatoriale con i Saint Louis Kutis, la squadra due volte vincitrice della US Open Cup e la cui porta ha difeso fino al giorno della sua morte avvenuta proprio in campo nel 2008, a cinquantotto anni, durante una partita a Seattle, per la rottura dell’aorta.
Al di là di alcune importazioni d’eccellenza, però, il core degli Steamers, anche se il concetto di settore giovanile come lo intendiamo nel resto del mondo non sarebbe arrivato fino al 2007, era costituito da giocatori locali e dalle eccellenze della scena cittadina. I primi due allenatori furono due ex campioni nazionali con i Billikens come Pat McBride, vincitore nel 1963 e 1965 sotto Bob Guelker e nel 1967 con Harry Keough, e Al Trost, campione nel 1967, 1969 e 1970, mentre in campo nasceva la leggenda di Daryl Doran, il cui numero 7 è, insieme al 30 di Iljevski, l’unico ad essere stato ritirato dagli Steamers. Doran è la cosa più vicina ad una bandiera alla Francesco Totti o alla Steven Gerrard che il calcio statunitense possa vantare. Nato a Saint Louis nel 1963, Doran giocò solamente un anno con i Billikens venendo scelto dopo la stagione da freshman sia al draft NASL che a quello MISL. Dovendo scegliere tra l’opzione dei Tampa Bay Rowdies e la possibilità di rimanere a Saint Louis, Doran optò per firmare con gli Steamers, iniziando una carriera che, tra campo e panchina, lo ha visto lasciare la sua città d’origine solamente per una stagione, con i Los Angeles Lazers nel 1989 in seguito al fallimento nell’anno precedente degli Steamers.
Doran è con ogni probabilità il miglior giocatore nella storia dell’indoor soccer ed è sicuramente il suo recordman di presenze avendo totalizzato 827 partite – con 419 gol – tutte, tranne per le già citate 38 californiane, a Saint Louis. Negli Steamers originali Doran ha giocato più che in qualsiasi altra squadra, totalizzando 270 presenze, per poi giocare ai St. Louis Storm insieme a Preki prima del passaggio di quest’ultimo all’Everton, passare ai St. Louis Ambush della NPSL, la squadra con cui ha segnato di più – 182 gol – e di cui è stato allenatore-giocatore dal 1992 al 1999, qualificandosi ogni anno per i playoff e vincendo l’unico titolo di Saint Louis nella storia dell’indoor soccer, quando nel 1995 gli Ambush si laurearono campioni della NPSL, per poi tornare nei rifondati Steamers della rifondata MISL con lo stesso doppio ruolo. Dopo essersi ritirato nel 2005, Doran è tornato a giocare una singola partita con i St. Louis Illusion della Professional Arena Soccer League, segnando due reti e appendendo poi gli scarpini al chiodo e dedicarsi alla carriera di allenatore che lo avrebbe visto alla guida di solo un’altra squadra, i rigenerati Ambush tra il 2013 e il 2015 nella MASL.
Nei primi secondi di questo video, la versione integrale di Gara 3 delle Finals MISL 1982 contro i New York Arrows, il telecronista parla del Checkerdome – il nome sponsorizzato della Saint Louis Arena – come “della Mecca” dell’indoor soccer e parla di un pubblico di diciassettemila persone, una media che in quegli anni d’oro gli Steamers tenevano con facilità e che non solo in quel periodo permetteva loro di battere i Saint Louis Blues della NHL che occupavano la stessa arena, ma che è superiore ancora oggi al numero medio di spettatori di alcune franchigie di NHL, NBA, MLS e MLB. Anche nella Soccer City USA, anche in quell’unico luogo che, come abbiamo visto e continueremo a vedere lungo il corso di questa storia, ha sempre scelto e accolto il calcio nel suo pantheon sportivo cittadino, e pur contando che ci troviamo forse nell’epoca d’oro dell’indoor soccer, quel momento in cui, come chi ha visto The Last Dance può testimoniare, i Chicago Sting raccoglievano più pubblico all’arena rispetto ai Chicago Bulls, questo tipo di record e traguardi non possono mai essere dati per scontati. Quando la NASL se ne era andata dal Missouri nel 1977, lo aveva fatto dopo tre anni in cui i Saint Louis Stars, visto lo scarso afflusso di pubblico, si erano trasferiti dai sessantamila posti del Busch Stadium ai tremila scarsi del Francis Field che, ehi, è lo stesso in cui si giocò il torneo di calcio delle Olimpiadi 1904 con cui abbiamo aperto questa storia!
Anche comunque senza aver mai raccolto il pubblico degli Steamers pur giocando per gran parte della storia in uno stadio molto più grande, per certi versi i Saint Louis Stars possono definirsi una delle storie di successo se non *la* storia di successo del calcio a Saint Louis, non fosse altro perché sono, ad oggi e fino a che Saint Louis City SC non batterà il loro record, la squadra professionistica cittadina a vantare il periodo più lungo di esistenza prolungata e senza pause, essendo durata undici anni contro i nove dei primi Steamers – che sarebbero però ritornati nel 1998 e fino al 2006.
Durante il loro passaggio in NASL le Stars furono, a dispetto del loro nome, certamente poco spettacolari, la tetra oscurità della notte necessaria per far risplendere le stelle che abitavano invece altre città. È quasi possibile fare un parallelismo con la franchigia MLS il cui direttore sportivo Lutz Pfannenstiel ha detto di voler costruire un “Designated Team”, piuttosto che affidarsi ad una serie di Designated Player strapagati. Nella loro sostanziale non spettacolarità, comunque, la presenza degli Stars ha lasciato comunque un’eredità molto importante, decisamente più notevole rispetto a quelle di alcune franchigie che pure hanno potuto contare su nomi ben più celebri. In primo luogo, come abbiamo detto nella scorsa puntata, le Stars furono fondate da Bob Hermann, l’imprenditore a cui è dedicato ancora oggi il premio per il miglior calciatore e la miglior calciatrice del college soccer. Un altro fattore importante da considerare è che anche i Saint Louis Stars, rispettando fedelmente la tradizione calcistica locale, ha spesso costruito le proprie squadre basandosi tantissimo sul talento locale, selezionando al Draft prodotti delle università locali – basta prendere ad esempio l’anno 1976, con un en plein di scelte provenienti da college di zona. Tra i tanti giocatori locali anche i due già citati prodotti di SLU che sarebbero diventati allenatori, in fasi successive, degli Steamers, Al Trost e Pat McBride, entrambi compagni di squadra ed entrambi con più di 100 presenze nella squadra tra il 1969 e il 1977.
Ma forse l’eredità maggiore lasciata dal passaggio di Saint Louis nella NASL è che proprio grazie alla città del Missouri l’indoor soccer è nato e ha costruito il proprio successo duraturo e ancora, tutto sommato, abbastanza solido. Come abbiamo detto, nel 1975 la NASL decise di organizzare in pianta stabile un campionato di indoor soccer per riempire il vuoto della stagione invernale, ma quello che non è stato detto in precedenza è che la ragione di quella era stata, a tutti gli effetti, la guerra fredda. Mi spiego meglio. Nel 1974 la squadra di calcio dell’Armata Rossa arrivò negli Stati Uniti per una serie di partite amichevoli di indoor soccer contro alcune delle squadre locali, e se la prima fermata fu Philadelphia, l’ultima tappa fu quella della Saint Louis Arena dove la squadra sovietica distrusse le Stars per 11-4. Al di là dei risultati comunque, il successo di pubblico fu tale che convinse la lega a riprendere in mano una versione dello sport che avevano sedotto e abbandonato qualche anno prima, dopo averlo presentato come, potenzialmente, il futuro dello sport e forse la prima di migliaia di reinvenzioni del calcio promesse da imprenditori statunitensi.
Fonte: NASL Friendlies-St. Louis Stars (nasljerseys.com)
Nel 1971 infatti la NASL, in un tentativo disperato di rivitalizzarsi dopo un inizio difficile che l’aveva vista perdere dieci franchigie nel 1968, diventare semi-professionista nel 1969 e ritentare quello stesso anno la carta delle squadre straniere assunte in blocco per rappresentare le varie città statunitensi, organizzò alla già citata Saint Louis Arena un torneo unico nel suo genere, un nuovo sport che mischiava le regole di due discipline differenti e che dunque da essi prendeva il nome. Nasceva l’hoc-soc, ovvero un misto tra hockey su ghiaccio e calcio. A quel torneo, svoltosi tutto nell’arco di una serata, avrebbero partecipato quattro delle otto franchigie della lega: i Dallas Tornado, che si sarebbero laureati campioni, i Rochester Lancers, i Washington Darts e ovviamente i padroni di casa dei St. Louis Stars. Il torneo si svolse davanti a cinquemila persone e non fu un successo clamoroso. Per Saint Louis, sconfitta in semifinale dai futuri campioni ma vincente nella finalina contro Washington, due giocatori sarebbero riusciti ad entrare nell’All-Tournament Team: il portiere brasiliano Miguel da Lima, uno dei primi giramondo pallonari con fermate in Colombia e Germania prima di trovare Saint Louis e diventare, dal 1972 al 1976, allenatore dei portieri di SLU, e il centravanti jugoslavo Dragan “Don” Popovic, un montenegrino cresciuto nella Stella Rossa con un passato anche a Spalato prima di effettuare il salto oltre oceano.
Come molti calciatori stranieri di quell’epoca, Popovic trovò negli Stati Uniti una seconda casa, e dal suo primo arrivo proprio a Saint Louis nel 1967 ha iniziato una carriera da girovago – nel 1971 era già al suo secondo ritorno all’ombra del Gateway Arch dopo un passaggio ai Kansas City Spurs – che lo ha visto allenare a lungo tra Las Vegas, New York, Pittsburgh e anche la versione storica dei San José Earthquakes. Nel 1989 Popovic sarebbe tornato per la terza volta a Saint Louis per allenare i St. Louis Storm del conterraneo Preki, e da quel momento non se ne sarebbe più andato. Nel 1992 Popovic avrebbe fondato insieme a Lou Fusz Jr, erede del fondatore di una delle più grandi concessionarie di Saint Louis, una squadra di calcio giovanile, il Lou Fusz Soccer Club, un’organizzazione giovanile che negli anni si è espansa fino a diventare un’autorità locale e ad accogliere all’interno del suo organigramma pure squadre di football e lacrosse, il cui impatto sulla scena calcistica è stato tale che la piazza che siede davanti al nuovo CITYPARK, casa di Saint Louis City SC, ha preso proprio il nome di Lou Fusz.
Come è facile immaginare, in anni caratterizzati da un’assenza totale di calcio professionistico e da un collage sconclusionato di diverse entità dedite all’indoor soccer, la passione per il calcio di Saint Louis si è tramandata grazie al calcio giovanile, grazie ad alcune società tra le migliori del paese, anche se forse la prevalenza negli ultimi decenni del modello pay-to-play – da cui per fortuna la MLS si è distaccata con i suoi settori giovanili – ha contribuito ad allontanare il calcio da quello che ha sempre rappresentato per la città soprattutto negli anni dei programmi calcistici del Catholic Youth Council, ovvero un’opportunità per i giovani della working class di formarsi attraverso lo sport. Centro nevralgico di quello che è uno degli hotbed calcistici del paese è il sobborgo di Creve Coeur, che nei pressi del ruscello omonimo è stato invaso da un mare di campi da calcio completamente isolati dal tessuto cittadino in cui hanno sede alcune delle squadre di maggior successo del paese.
Tra queste c’è il Lou Fusz Athletic Club, arrivato qui nel 1997 dopo l’acquisizione dei terreni di gioco, ma anche il Jefferson Barracks Marine, forse per anni il miglior settore giovanile del calcio femminile statunitense, vincitore nel 2011 della Women’s Cup – il più importante torneo amatoriale del paese e, vista l’assenza della US Open Cup al femminile, la cosa più vicina ad una coppa nazionale che esista nel calcio femminile – e settore giovanile in grado di produrre le due campionesse del mondo originarie di Saint Louis – Lory Chalupny e Becky Sauerbrunn – oltre che tante giocatrici di livello tra cui la campionessa del mondo Under 20 nel 2008 Lauren Fowlkes. Se nel calcio femminile il Jefferson Barracks Marine rappresenta il settore giovanile d’eccellenza, al maschile quel ruolo è stato svolto, nel corso degli ultimi vent’anni, dallo Scott Gallagher Soccer Club.
Con sede al World Wide Technology Soccer Park, cinque campi da gioco nel sobborgo di Fenton sponsorizzati dalla World Wide Technology dell’ex centrocampista dei Billikens e co-proprietario di St. Louis City SC Jim Kavanaugh, di cui il centrale, con le tribune più capienti, è quello stesso stadio che, come vedevamo nel secondo episodio, divenne negli anni ’80 la sede della finale della US Open Cup, lo Scott Gallagher è nato dalla fusione di alcuni club locali, tra cui quel Busch che vinse l’ultima coppa nazionale di una squadra di Saint Louis. Dai colori sociali verde e blu, dal vivaio dello Scott Gallagher sono passati, ovviamente a distanza di anni, entrambi i calciatori nativi di Saint Louis partiti per lo scorso mondiale, Tim Ream e Josh Sargent, con quest’ultimo che è passato in Europa direttamente dalla piccola società statunitense dopo le ottime prestazioni ai mondiali Under 17 e Under 20 del 2017.
Il vivaio dello Scott Gallagher è uno dei più floridi del paese, potendo contare su un altro giocatore sceso in campo con la maglia dello USMNT, quel Will Bruin che ha recentemente lasciato Seattle per passare ad Austin, e altri veterani MLS tra cui, tenendo conto di quelli attualmente in attività nella lega, l’ex Sporting Kansas City Wan Kuzain, tornato lo scorso anno proprio a Saint Louis per giocare con la loro seconda squadra, e il difensore centrale di Nashville Jack Maher, seconda scelta assoluta al SuperDraft 2020 e potenzialmente atteso quest’anno al salto di qualità in un ruolo da titolare. Sulla scorta di questo settore giovanile d’eccellenza, nel 2014 lo Scott Gallagher ha anche provato a fare il grande salto nel professionismo. L’ultima squadra professionistica in città prima dell’arrivo della MLS, infatti, aveva gli stessi colori dello Scott Gallagher, giocava nello stesso stadio e pur chiamandosi più semplicemente St. Louis FC era di proprietà del club di Fenton anche grazie al supporto economico del già citato Kavanaugh.
In panchina venne chiamato inizialmente Dale Schilly, lo storico direttore del settore giovanile dello Scott Gallagher, ma nel corso degli anni su quella panchina si sono succeduti nomi quasi tutti legati alla scena calcistica locale – con l’esclusione di Anthony Pulis, figlio di Tony, allenatore tra il 2017 e il 2020 – come quello di Preki – come abbiamo già visto stella degli Storm negli anni ’90 – e di Steve Trittschuh, che aveva iniziato la sua carriera con gli Steamers e avrebbe fatto parte della rosa statunitense ai mondiali italiani del 1990. Capitano e leader in campo – recordman di presenze assoluto nella storia del club – un altro figlio di Saint Louis, Sam Fink, 119 presenze in due spezzoni tra il 2015 e il 2016 e tra il 2018 e il 2020.
Alla fine della stagione 2020, con Trittschuh in panchina, Saint Louis FC avrebbe chiuso i battenti. L’effetto devastante della pandemia sulle finanze di un piccolo club, l’arrivo di una nuova franchigia MLS che avrebbe catturato l’attenzione del pubblico locale spinsero lo Scott Gallagher a tornare ad occuparsi esclusivamente di calcio giovanile. E dunque dopo aver affrontato una lunga panoramica siamo arrivati alla situazione odierna. Questa notte – mentre pubblico le parole che state leggendo – St. Louis City SC, la nuova franchigia professionistica della Soccer Capital USA, scende in campo al Q2 Stadium contro Austin FC per la loro prima partita in MLS. Settimana prossima, per raccontare la loro storia in vista dell’esordio casalingo e concludere il percorso del calcio a Saint Louis, ci occuperemo di loro, della squadra, dei giocatori, dei suoi collegamenti con una storia del calcio cittadino che, come abbiamo visto, è tutta una ragnatela di rimandi, citazioni, ritorni e nomi estremamente familiari. Con il prossimo e ultimo episodio proviamo a vedere come il calcio a Saint Louis vuole provare ad uscire Fuori dal sommerso e a rendere nota al mondo la sua centenaria storia d’amore con lo sport più popolare del mondo.
Facebook Comments