Fuori dal sommerso – ep4

Per capire Saint Louis bisogna andare in Texas. Lo so, sembra strano. Ripartiamo da zero. Per capire cosa vuol dire il calcio – specialmente quello di livello universitario – a Saint Louis bisogna vedere cosa vuol dire il football – specialmente quello di livello universitario e liceale – in Texas. Per vostra fortuna, almeno sul termine di paragone la bibliografia è ampia, approfondita e di facile comprensione anche per chi magari non conosce la lingua inglese. Per dire, DAZN ha recentemente fatto uscire un documentario in italiano che tratta – anche – di questo tema. Il materiale certamente non manca. Il football è il Texas ed è vicendevolmente ricambiato. Questo è appurato. E dunque partiamo da questo punto: il football universitario, con il suo apice nel Texas ma in generale in tutti e cinquanta gli stati – Hawaii incluse – è il termine di paragone più vicino che possa esistere al modo in cui è vissuto il calcio in altre parti del mondo, più visibilmente Europa e Sud America. Degli undici stadi al mondo con una capienza superiore ai centomila posti, otto sono stadi di football universitari, cinque di questi sono in città con meno di duecentomila abitanti – Ann Arbor, State College, College Station, Knoxville, Tuscaloosa – e durante la stagione NCAA questi stadi sono pieni. E rumorosi.

 

Dunque, siamo d’accordo: negli Stati Uniti lo sport universitario rappresenta quel punto di raccordo tra la comunità locale e lo sport di alto livello, è ciò di cui i media cittadini – quei pochi che continuano a sopravvivere in un periodo di estrema crisi per il giornalismo statunitense – si occupano, è quel filo che, in qualunque parte del paese tu vada a vivere, semplicemente non si spezza, ti tiene collegato al posto in cui sei nato e cresciuto o anche solo laddove hai passato i primi cinque anni da adulto indipendente della tua vita, e questo al di là della capienza di uno stadio. Quando quest’anno l’università di Appalachian State, con uno stadio da trentamila spettatori – comunque situato in un paese che di abitanti ne conta diciottomila – ha sconfitto in una partita di regular season Texas A&M, uno di quei college con uno stadio dalla capienza a sei cifre, a Boone, North Carolina, queste erano le scene.

 

 

Come ci aiuta tutto questo a comprendere cosa rappresenta il calcio a Saint Louis? La risposta sta nel fatto che tutto quello che è stato scritto fino ad ora non è meno valido a Saint Louis di quanto non lo sia in tutto il resto degli Stati Uniti, ma che a Saint Louis una squadra di football universitario non c’è. La valvola di sfogo da qualche altra parte deve esserci, e potrebbe essere, come in molte altre parti del paese, il basket. Gli spettatori del college basketball non sono meno rumorosi e appassionati di quelli del football, quello è certo, e l’università di Saint Louis in effetti un programma di pallacanestro lo ha a livello sia maschile che femminile. Ma i Billikens – questo è il soprannome di SLU, vorrei dire che è una creatura mitologica, ma parliamo degli Stati Uniti e quindi è un mostriciattolo porta fortuna apparso in sogno a Florence Pentz, illustratrice di Kansas City, che ne ha brevettato il disegno e venduto i diritti ad un’azienda di Chicago nel 1908 – non sono esattamente uno dei programmi di maggiore successo del paese. Gli uomini hanno avuto un po’ più di successo, ma non hanno mai vinto un titolo NCAA, contano solo dieci apparizioni alla March Madness – l’ultima nel 2019 – e il miglior giocatore NBA che abbiano mai prodotto è Larry Hughes.

 

Dunque quello che resta è il calcio – questi non sono ovviamente gli unici tre sport praticati in NCAA, ma vi risparmio la noia di fare altri tentativi – e in effetti il calcio è lo sport per cui l’università di Saint Louis è maggiormente conosciuta a livello nazionale. I Billikens hanno vinto più titoli nazionali a livello maschile di qualsiasi altra squadra, con dieci anelli, e loro è anche il record di spettatori registrati ad una partita di college soccer, quando nel 1980 la loro sfida contro SIU Edwardsville giocata al Busch Memorial Stadium, vecchia casa dei Cardinals della MLB, raccolse ventiduemila spettatori. Al di là di qualche sporadica apparizione al Busch Stadium, accadimento che comunque non è più usanza da decenni, SLU gioca le sue partite casalinghe all’Hermann Stadium, campo da seimila spettatori – non tra i più grandi del college soccer, ma comunque in media se non addirittura un po’ sopra la media – situato in mezzo al campus universitario, a pochi metri di distanza dalle Marchetti Towers, gli appartamenti per studenti universitari costruite sul sito del vecchio Handlan’s Park.

 

In primo piano le Marchetti Towers e dietro l’Hermann Stadium, casa dei Billikens

Lo stadio deve il suo nome a Bob Hermann, un pioniere del calcio professionistico statunitense. Fu lui nel 1967 a fondare la National Professional Soccer League, una lega dalla breve durata ma per un buonissimo motivo, dal momento che dopo appena un anno di esistenza la NPSL si sarebbe fusa con la United Soccer Association per dare vita alla NASL. A fusione avvenuta, Hermann, che per matrimonio era entrato a far parte della potentissima famiglia Busch – la stessa dello stadio, ma non, ovviamente, quella della politica – divenne il proprietario dei Saint Louis Stars, la franchigia che aveva creato in NPSL e che avrebbe resistito dieci anni, venendo trasferita alla fine della stagione 1977 ad Anaheim, dove divennero i California Surf. L’impatto di Hermann, morto nel 2020 a novantasette anni, è però legato maggiormente al calcio universitario, e non solo per lo stadio.

 

In suo onore infatti ogni anno il Missouri Athletic Club, un’associazione privata con una sede in un bellissimo palazzo neorinascimentale nella downtown cittadina, assegna l’Hermann Trophy al miglior giocatore e alla miglior giocatrice di calcio universitario del paese. Inaugurato da Bob Hermann nel 1967 e dal 1988 dotato anche di una categoria femminile, l’Hermann Trophy è stato nel corso degli anni assegnato ad alcuni dei nomi più celebri del soccer, da Mia Hamm alla presidentessa della USSF Cindy Parlow fino a Catarina Macario – tutti questi nomi lo hanno vinto due volte di fila – al femminile e al maschile a nomi non meno riconoscibili come quelli di Claudio Reyna, Alexi Lalas e più recentemente Jordan Morris, oppure ad altri meno noti come quello di Mike Fisher, unico uomo a vincere il trofeo due volte che ha però abbandonato una promettente carriera da calciatore negli anni novanta per diventare un radiologo.

 

Duncan McGuire di Creighton e Michelle Cooper di Duke, rispettivamente vincitore e vincitrice dell’Hermann Trophy 2023

Nel corso degli anni il programma dei Billikens ha portato tanto talento in dote alla MLS, è stato soprattutto nei primi anni un serbatoio importante per la nazionale statunitense, e quattro Billiken – Mike Sorber, Brian McBride, Brad Davis e Tim Ream al maschile – come abbiamo visto nello scorso episodio, hanno rappresentato gli Stati Uniti ai mondiali di calcio. Ma anche al di fuori del calcio statunitense la squadra può contare su alcuni nomi che si sono fatti valere. Detto di Jim Kavanaugh, miliardario fondatore di World Wide Technology, una stagione nella Major Indoor Soccer League, parte del board del Saint Louis Scott Gallagher e co-proprietario dei Saint Louis Blues della NHL e della nuova franchigia MLS St. Louis City SC, e di Pat Leahy, che come molti appassionati di calcio statunitensi si è riciclato come kicker nella NFL, passato professionista senza aver mai giocato a football al college e per diciotto anni, dal 1974 al 1992, responsabile dei field goal dei New York Jets, c’è però un altro nome che va fatto legato ai Billikens e la cui presenza in questa lista potrebbe sorprendere in molti. Stiamo parlando di Vedad Ibisevic. Sì, esatto, proprio lui, non un omonimo.

 

Nato a Vlasenica, in Bosnia, nel 1984, Ibisevic nel 2000 si trasferì con la famiglia in Svizzera e poi, di lì a poco, a Saint Louis. La scelta della città statunitense non fu casuale. A Saint Louis risiede la più grande comunità bosniaca al di fuori dell’Europa, settantamila persone arrivate ad ondate in seguito alla guerra nel loro paese natale e stabilitisi per la gran parte a Bevo Mill, un quartiere nella zona sud della città che prende il nome da un ristorante aperto nel 1917 nel quartiere da August A. Busch, proprietario della birreria Anheuser-Busch che da Saint Louis sarebbe poi diventata una delle più grandi aziende nel campo delle bevande alcoliche del mondo, il cui simbolo era un mulino a vento che resiste ancora oggi, nonostante il ristorante sia stato chiuso nel 2009 e abbia riaperto, sotto nuova gestione, nel 2013.

 

Non sappiamo con certezza se anche la famiglia Ibisevic abitasse a Bevo Mill, ma l’ipotesi non è da scartare. Pochi mesi dopo il suo arrivo negli Stati Uniti, nel 2002, Vedad Ibisevic avrebbe iniziato a giocare per la squadra di calcio della Roosevelt High School, sette minuti di macchina dal quartiere se si passa per la drittissima Old Route 66 – anche qui, non un’altra Route 66, ma la stessa mitologica arteria stradale il cui simbolo sembra quasi essere il sinonimo estetico dell’American Dream e delle immense distese da conquistare – diventando immediatamente una cosa che, nella città più in grado di riconoscere il suo talento, non si vedeva da tanto tempo e forse non si era mai vista.

 

Con i Rough Riders – il soprannome, comune nello sport statunitense, è particolarmente azzeccato visto che ha origine dal reggimento che, nella guerra Ispano-Americana, aveva come comandante il futuro presidente Theodore Roosevelt – Ibisevic si è presentato come uno dei migliori giocatori della città, pur giocando in una conference meno riconosciuta e con poco interesse a livello cittadino come la Public High League, e anche se non restano né video né statistiche del suo passaggio in quella scuola, possiamo immaginare che si parlasse di un giocatore abbastanza dominante, specialmente visto che il livello della competizione non era neanche il più alto disponibile in città. Nonostante il livello tutt’altro che eccezionale dell’ambiente circostante, le prestazioni di Ibisevic devono essere state troppo incredibili per non essere notate, e gli sono valse il recruiting del capo allenatore Dan Donigan e del suo assistente Mike Sorber – come abbiamo visto, membro del roster di SLU nei primi anni ’90 e poi convocato per i mondiali casalinghi del 1994, oggi fa l’assistente di Bob Bradley a Toronto FC – per la stagione 2003 dei Billikens, la seconda da head coach di Donigan, promosso dopo qualche anno come vice di Bob Warming.

 

Anche dell’anno da freshman di Ibisevic con SLU non abbiamo testimonianze video, ma abbiamo una consistente dose di testimonianze fotografiche, conservate e prodotte principalmente dall’università stessa, e per capirlo basta fare riferimento ad un altro tipo di testimonianze rimaste a nostra disposizione, quelle scritte delle statistiche di quello che sarebbe poi stato l’unico anno del calciatore bosniaco in NCAA. Il tabellino di Ibisevic in maglia blu recita diciotto gol e quattro assist in ventidue partite, record storico per un freshman e buono come quarto numero più alto a livello nazionale in quella stagione, e a quelle prestazioni fa da sfondo un anno decisamente positivo per la squadra, che vince il titolo di conference, è testa di serie #7 a livello nazionale e trova la strada per le finali regionali dove, dopo aver eliminato lungo il percorso Binghamton e Washington, ai Billikens non riesce l’upset contro la #2 Maryland.

 

Era chiaro che Vedad Ibisevic sarebbe passato professionista alla prima occasione buona, ma forse non tutti si aspettavano che quell’occasione sarebbe arrivata per mano di un gigante dello sport bosniaco, l’allora allenatore del Paris Saint Germain Vahid Halilodzic, che durante una sua tournée negli Stati Uniti decise di offrirgli un contratto da professionista con i parigini, lanciando la sua carriera professionistica da centoventisette gol in Bundesliga e ventotto con la maglia della nazionale bosniaca con cui ha anche giocato al mondiale 2014.

 

Proprio in vista di quello storico mondiale Ibisevic sarebbe tornato a Saint Louis, dove comunque, a dimostrare il legame che, pure in pochi anni, si è venuto a formare con la città statunitense, la sua famiglia continua a risiedere. Nel 2013 la Bosnia giocò due amichevoli a Saint Louis, entrambe al Busch Stadium, la prima a maggio contro la Costa d’Avorio e l’altra contro i futuri rivali nei gruppi del mondiale brasiliano, l’Argentina, terminata 2-0, nel mese di novembre. In quelle occasioni la comunità bosniaca di Saint Louis ma anche una consistente parte di immigrati bosniaci sparsi in tutto il Nord America e radunatisi in Missouri per quell’occasione speciale riempirono le tribune del Busch Stadium, mentre Vedad Ibisevic si trovò ad allenarsi con il resto della nazionale proprio in quell’Hermann Stadium su cui aveva fatto capire a tutti di che tipo di prospetto si trattasse dieci anni prima.

 

Ogni storia però ha un inizio e per capire veramente tutto quello che è venuto dopo – i dieci titoli, i cinque giocatori ai mondiali tra USMNT e Bosnia, banalmente anche solo la reputazione della scuola a livello calcistico – dobbiamo riaprire una finestra di cui abbiamo già abbondantemente trattato, infilarci la mano, tirarne fuori la figura di un uomo che è forse la singola persona più importante di questa storia – e non intendo la trama verticale su Saint Louis University, ma proprio ad un livello più ampio quella orizzontale sul calcio a Saint Louis – ovvero Bob Guelker.

 

Nato a Saint Louis nel giugno 1923 – ed è coincidenza particolarmente felice che Saint Louis esordisca in MLS proprio nel centenario della sua nascita – Guelker deve la sua vicinanza al mondo del calcio proprio agli ambienti della chiesa cattolica locale. Allenatore della formazione calcistica del St. Louis Preparatory Seminary – e viene da pensare alla citazione di padre Louis Meyer riportata nel primo episodio per cui dentro al seminario il campo da calcio era “un luogo sacro” – Guelker era anche segretario esecutivo del Catholic Youth Council, l’organizzazione i cui programmi sportivi facevano giocare a calcio in giro per la città oltre diciottomila ragazzini divisi in squadre di quartiere, di isolato, di strada. In questo ruolo Guelker aveva potuto nel corso del tempo sviluppare una conoscenza irripetibile della scena calcistica cittadina a livello giovanile, riconoscendo immediatamente il potenziale per mettere su un qualcosa di speciale. Nel 1958, a trentacinque anni, riuscì a convincere la sua alma mater Saint Louis University ad affidargli la costruzione di un programma calcistico. Per fare ciò l’università gli diede un budget di duecento dollari e, almeno in una prima fase, diede alla squadra di calcio la qualifica di “club” piuttosto che di “varsity”, senza quindi la possibilità di assegnare borse di studio e di reclutare giocatori al di fuori dell’ambiente universitario.

 

L’anno successivo però la NCAA organizzò il suo primo campionato nazionale, e come conseguenza anche SLU decise di promuovere il suo programma ad un livello superiore. Con Guelker alla guida e con in campo una squadra fatta esclusivamente dei migliori prospetti in uscita dai campionati del CYC, i Billikens completarono una stagione regolare da otto vittorie e una sconfitta guadagnandosi un biglietto per il torneo che avrebbe assegnato il titolo. Dopo aver battuto San Francisco 4-0 ai quarti e 6-2 il City College of New York in semifinale, in una giornata schifosa di pioggia e nuvoloni neri a Storrs, CT – chi l’avrebbe mai detto che a novembre nel New England c’è brutto tempo – sul campo francamente impraticabile – lo si capisce anche dai pochi video sopravvissuti dell’evento, nonostante la qualità non eccellente della registrazione – del Memorial Stadium, Saint Louis University sconfisse 5-2 i Purple Knights di Bridgeport padroni di casa, completando un torneo da quindici gol segnati e quattro subiti. I giocatori di Saint Louis erano più grandi, più tecnici, più duri, forgiati da infinite e giornaliere rivalità di quartiere il cui fischio finale spettava al sole, o meglio al momento della sua sparizione in un altro fuso orario, e rinforzati da un campionato liceale che, a differenza del resto del paese, si giocava in inverno.

 

Fonte: https://weatherspark.com/y/12083/Average-Weather-in-St.-Louis-Missouri-United-States-Year-Round

Certo, si potrebbe dire che la partita di Saint Louis sia stata resa più facile dal fatto che Bridgeport era riuscita, in semifinale, a sconfiggere West Chester State solamente al decimo overtime, ma la superiorità dei Billikens non fu messa in discussione neanche dal tecnico sconfitto, John “Doc” McKeon, secondo cui “ci sarebbe voluto un all-star team delle altre tre semifinaliste per avere forse una chance”. Anche gli anni successivi dimostrarono che quella del Memorial Stadium fu vera gloria. Dal 1959 al 1965 Saint Louis staccò sempre il biglietto per le Final Four del torneo NCAA, vincendo cinque campionati nazionali, perdendo in finale contro West Chester nel 1961 e uscendo nelle semifinali nel 1964. In particolare il titolo del 1965 è sorprendente: con soli quattro giocatori rimasti dall’anno precedente la squadra era attesa ad un anno di rebuild, e con sempre più università che iniziavano a reclutare giocatori dell’area di Saint Louis, Guelker aveva l’impressione che un dominio come quello di SLU non sarebbe più stato possibile. Eppure quei Billikens conclusero la seconda stagione da imbattuti e la prima senza sconfitte nella loro storia, vincendo in finale contro Michigan State, uno dei programmi che maggiormente avevano reclutato dall’area di Saint Louis.

 

Nel 1966 però la prima eliminazione alle Elite Eight rese ancora più saldo nelle sue convinzioni Bob Guelker, che lasciò la guida del programma. Al suo posto un nome con un pedigree decisamente diverso, eppure anche molte similitudini. Se Bob Guelker, nonostante la sconvolgente passione per il calcio, non ci aveva mai giocato, ma ne aveva imparato i segreti sui libri come fosse la matematica o, visto dove ha iniziato ad allenare, la teologia, Harry Keough, arrivato al principale incarico cittadino grazie al suo lavoro al Florissant Valley Community College, era l’idolo di intere generazioni di ragazzini di Saint Louis che erano cresciuti vedendolo giocare e vincere coppe nazionali con il Kutis, inclusi quelli che sarebbe andato ad allenare. Parte dello USMNT vincitore contro gli inglesi nel 1950, Keough per arrotondare il suo stipendio da postino faceva anche l’arbitro nelle partite tra licei, acquisendo così una conoscenza del talento locale in grado di fiancheggiare quella del suo illustre predecessore.

 

La familiarità con il materiale a propria disposizione non è però l’unica cosa in comune tra i due tecnici e anzi, nonostante il differente approccio avuto con il gioco, i due si assomigliano più di quanto si possa pensare. Anche Keough ha vinto il suo primo titolo nazionale al primo tentativo, e anche lui lo ha fatto su un campo sferzato dalla pioggia e ridotto in condizioni acquitrinose – nel suo caso però la clemenza dell’arbitro portò alla sospensione della partita contro Michigan State e alla decisione della NCAA di assegnare il titolo ad entrambe le finaliste. Anche Harry Keough ha vinto cinque titoli con i Billikens e esattamente come Guelker lo ha fatto in sette anni. Come in un déjà-vu, Saint Louis è stata capace di ricostruire una dinastia ancora una volta puntando esclusivamente sul talento locale, imprimendo un dominio dai toni forse ancora più marcati della prima volta, e contenente anche una striscia positiva di quarantacinque gare durata dal 1968 alla finale del 1971, persa contro Howard University prima che l’HBCU capitolino venisse squalificato per aver utilizzato giocatori ineleggibili spingendo la NCAA a non assegnare il titolo.

 

Harry Keough è morto di Alzheimer nel 2012, e dal 2004 viene assegnato il Keough Award, assegnato al migliore giocatore e alla miglior giocatrice professionista originaria dell’area di Saint Louis e dedicato al tecnico e a suo figlio Ty Keough, suo giocatore a SLU, ha raccolto otto presenze in nazionale e ha visto anche lui i mondiali, sia pure come commentatore televisivo per ESPN e TNT tra il 1990 e il 2002. I nomi dei vincitori del premio li abbiamo fatti quasi tutti in un modo o nell’altro, ma ce n’è un altro degno di nota. Taylor Twellman non è nato a Saint Louis e non ha giocato per i Billikens, ma è indubbiamente uno dei nomi più celebri del calcio locale nel ventunesimo secolo. Cresciuto all’ombra del Gateway Arch, Twellman è nato a Minneapolis solo perché lì giocava professionista il padre Tim, ritornato in città appena terminata la sua carriera – dal 2007 è allenatore per un liceo locale, la Ville Duchesne/Oak Hill High School – e a Saint Louis si è costruito la reputazione da fenomeno multisport – All-American in football, pallacanestro, calcio e baseball. MVP MLS nel 2005, il nome di Twellman è legato soprattutto alla sua carriera da commentatore televisivo, e dopo undici anni a ESPN è il nome più grosso prelevato dalla MLS per il suo nuovo Season Pass.

 

 

Ma l’eredità di Keough non si ferma ad un semplice trofeo. L’ultimo titolo da lui vinto alla guida dei Billikens nel 1973 è anche l’ultimo titolo nella storia dell’università. Alla fine, la profezia di Bob Guelker si è avverata, e nessuna squadra ha più dominato il college soccer. Ancora oggi, pur non vincendo titoli da quasi cinquant’anni, nessuna altra università ha raggiunto SLU per numero di titoli nazionali. La mancanza di successo dei Billikens però non può essere assegnata, o non soltanto almeno, ad un peggioramento generale del programma. Come ha detto Jerry Yeagley, allenatore degli Indiana Hoosiers dal 1973 al 2003, in A Time for Champions, documentario della stazione PBS di Saint Louis sul dominio di SLU nel college soccer maschile, “non è stata la fine della loro dinastia, quanto il fatto che avessero creato un mostro che neanche loro avrebbero potuto controllare”. Prima il loro successo reso possibile, come il Celtic campione d’Europa, esclusivamente da giocatori locali ha spinto le altre università a reclutare con particolare attenzione nell’area metropolitana di Saint Louis e poi, con l’aumento di popolarità dello sport nel resto del paese, anche l’unico vantaggio su cui poteva contare SLU è svanito, relegandola ad un posto importante ma certamente non dominante nel panorama del soccer universitario.

 

A proposito di Bob Guelker, che ne è stato di lui? Lo avevamo lasciato nel 1966, pronto per una nuova sfida, e abbiamo capito che non è il tipo che resta con le mani in mano: il suo ruolo alla guida dei programmi calcistici del CYC cittadino sarebbe rimasto lo stesso fino al 1969 e in quello stesso anno sarebbe scaduto il suo mandato biennale alla guida della federazione calcistica statunitense. Tutti questi impegni però non rappresentavano un allontanamento dal campo d’allenamento, anzi. Pochi mesi dopo l’addio alla sua alma mater, Guelker arrivava ad Edwardsville, Illinois, ventitré minuti di macchina dal campus di Saint Louis University, come direttore atletico e responsabile della fondazione del nuovo programma calcistico di Southern Illinois University. Con i SIU Edwardsville Cougars, Bob Guelker aveva di nuovo la possibilità di costruire da zero una potenza del college soccer e ancora una volta, per farlo, avrebbe puntato sul talento locale e sul sempre fertile vivaio del calcio giovanile a Saint Louis. A Edwardsville l’ex allenatore dei Billikens avrebbe fatto diretta concorrenza alla sua alma mater per alcuni dei migliori talenti del paese, come Tom Galati, una presenza con lo USMNT o i fratelli John e Chris Carenza, figli di un Joe Carenza nato a The Hill e protagonista dell’età dell’oro del calcio a Saint Louis dopo essere cresciuto proprio nei programmi del CYC supervisionati da Guelker.

 

Nel 1972 per la prima volta i Cougars hanno la possibilità di testarsi dopo anni da indipendenti in fase di transizione, ma lo fanno partendo dalla Division II della NCAA, che per la prima volta organizza un campionato nazionale anche per il calcio. Come era stato tredici anni prima per SLU, Bob Guelker si laurea campione battendo in finale Oneonta proprio con rete di Chris Carenza. La vittoria, anche se la NCAA non prevede un sistema fisso di promozioni e retrocessioni, convince comunque l’università a fare il grande passo e a trasferirsi in Division I. La transizione è senza contraccolpi particolari e SIU diventa immediatamente una presenza abitudinaria al torneo NCAA. Nel 1975 i Cougars arrivano in finale venendo sconfitta solo da San Francisco, mentre nel 1979 Bob Guelker riesce nell’impresa di creare un’altra potenza a livello nazionale e alza il titolo NCAA battendo Indiana 2-0 in finale con in rosa, tra gli altri, proprio Tim Twellman, padre di Taylor, e suo fratello Mike.

 

In molte di queste presenze ininterrotte ai playoff per il titolo nazionale, Bob Guelker ha il modo di incontrare il suo passato. Anzi, per meglio dire, lo fa praticamente sempre. Le prime due partecipazioni di SIU al torneo NCAA dopo la vittoria in Division II vengono concluse, nel 1973 e nel 1974, per mano dei Billikens alle Elite Eight. Nel 1975 le due squadre si incontrano ancora una volta nello stesso punto del torneo, ma stavolta sono i Cougars a uscirne per la prima volta vincitori. Le due università si scontrano anche nel 1976, 1978 e 1979.

 

È a tutti gli effetti l’inizio di una rivalità, e allo stesso tempo il simbolo di un periodo d’oro forse ad oggi irripetibile – o quantomeno, nel clima corrente, inimmaginabile – per il college soccer maschile a Saint Louis. Probabilmente ispirata dal vedere due squadre composte quasi interamente da ragazzi usciti dai suoi programmi calcistici, nel 1971 il Catholic Youth Council di Saint Louis inizia ad assegnare un trofeo, intitolato Bronze Boot, alla squadra uscita vincitrice dallo scontro di regular season tra le due università – essendo SIU indipendente, anche ai tempi della Division II poteva completare il proprio calendario con squadre di divisioni differenti. Le due squadre si affrontano almeno una volta l’anno ancora oggi, e il trofeo viene ancora assegnato, ma al di là della rivalità tra i due programmi l’attenzione intorno alla partita non è più quella di una volta. Come abbiamo detto in apertura di articolo, Saint Louis detiene il record per la partita con più spettatori nella storia del college soccer maschile, ma siccome il calcio si gioca in due va ricordato che in quel 1980 al Busch Stadium di fronte a ventiduemila spettatori c’erano anche i Cougars di Bob Guelker in una partita valida per il Bronze Boot e che, in quel decennio, si giocarono altre due partite tra le due università che, sul terreno del Busch Stadium, sono valide per il settimo e il quattordicesimo numero di spettatori ad una partita di calcio per la NCAA maschile.

 

La storia di Bob Guelker come allenatore sarebbe terminata insieme al suo passaggio su questa terra. L’allenatore di SIU è morto il 22 febbraio del 1986, quando era ancora in carica di uno dei più importanti programmi calcistici del paese. Quattro anni prima i Cougars avevano finito il torneo NCAA al terzo posto. La legacy di Guelker è indiscutibile, stiamo parlando con ogni probabilità della singola persona più importante nell’aver trascinato la cultura calcistica di Saint Louis da un’epoca all’altra, il trait d’union tra i primi settant’anni, quelli che vanno dalla prima partita di calcio in Missouri di cui si abbia testimonianza nel 1882 all’undici titolare per gran parte di Saint Louis degli Stati Uniti al mondiale 1950 ai secondi settant’anni, quelli che vanno dai tornei di quartiere organizzati dal CYC e dalla nascita del programma di Saint Louis University fino al mondiale 2022 con Tim Ream e Josh Sargent in campo e all’approdo di St. Louis City SC in MLS. Senza di lui il titolo di Soccer City sarebbe potuto tranquillamente rimanere un vezzo del passato, un qualcosa di legato al bianco e nero come lo è il glorioso passato calcistico di Fall River, Massachussetts. Il suo lavoro però ha lasciato accesa una lucetta, una piccola oncia di speranza a cui aggrapparsi, e nel prossimo episodio andremo a vedere come, al di fuori del college soccer, quella piccola fiamma è stata tramandata come una torcia olimpica, di mano in mano, fino alla situazione odierna.

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