
Fuori dal sommerso – ep3
Nel brano del 1932 You Can’t Get That Stuff No More, i cantanti blues statunitensi Tampa Red e Georgia Tom Dorsey, che, come si capisce dal nome, non erano di Saint Louis, cantano di un luogo sulla Dago Hill in cui, un tempo, prima del passaggio della polizia, era possibile acquistare alcool. Agli albori degli anni Trenta, la materia non è un argomento sconosciuto. Il Proibizionismo, oltre ad essere stato un periodo storico, è stato anche per il blues tema fondante per tutta una serie di brani e ha avuto come conseguenza quello di rendere il quartiere di Saint Louis noto come The Hill e colloquialmente anche come Dago Hill una sorta di luogo mistico, un posto citato in innumerevoli canzoni di artisti che in realtà di Saint Louis non erano, come Blind Boy Fuller del North Carolina, Charley Patton del Mississippi e i due già citati Tampa Red e Georgia Tom Dorsey. The Hill presentava una consistente enclave afroamericana – in un ospedale situato sul territorio del quartiere nacque, nel 1906, Josephine Baker – ma non è a quella comunità che va fatto risalire il termine colloquiale con cui era identificata quella zona della città. “Dago” è infatti un termine dispregiativo che veniva utilizzato per tutte le persone di origine mediterranea e, in particolare, per gli italiani, e The Hill era il luogo in cui si era andata a stabilire l’immigrazione italiana, principalmente da Lombardia e Sicilia, nella città del Missouri.
Ancora oggi a The Hill l’impronta della comunità italiana è fortissima, tanto che molti la ritengono l’ultima Little Italy o la vera Little Italy. Quando si entra nel quartiere si viene salutati da bandiere verdi, bianche e rosse e la chiesa cattolica locale è intitolata a Sant’Ambrogio oltre che ispirata architettonicamente all’omonima basilica milanese. Girando per il quartiere si possono trovare, senza nemmeno andare a citare gli innumerevoli ristoranti italiani, una Charlie Milani Place, una Robert Ruggeri Place, una Marconi Avenue e un meraviglioso Italia-America Bocce Club, di cui devo assolutamente farvi vedere l’ingresso perché sembra uscito da una parodia dei Soprano.
Non è una delle comunità italo-americane più note al mondo e può anche darsi che tutta questa necessità di spingere l’italianità del luogo – le bandiere tricolori, le feste, le statue di marmo – indichi un’insicurezza nata in risposta al passare del tempo e ai cambiamenti che hanno colpito il quartiere. Non lo so con precisione e non posso dirlo, non essendoci mai stato, ma è evidente che, nel corso degli anni, il rapporto tra The Hill e la comunità di immigrati italiani sia stato molto consistente. Uno dei piatti più riconoscibili legati a Saint Louis sono i toasted ravioli, ovvero dei ravioli impanati e fritti, la cui origine va fatta risalire a due ristoranti italiani del quartiere. Inoltre, a The Hill sono nati e cresciuti due leggende del baseball come Yogi Berra – a cui è intitolato un parco nella zona nord-ovest del quartiere – e Joe Garagiola Sr. I due, divisi da solo un anno d’età, sono cresciuti nella stessa strada, Elizabeth Avenue, in due case una di fronte all’altra.

Quello che però rende rilevante The Hill ai fini di questa storia – senza però perdere il collegamento con la comunità italo-americana cittadina – è che in questo quartiere sono nati e cresciuti quattro dei sei nativi di Saint Louis che rappresentarono gli Stati Uniti nei mondiali del 1950, tutti e quattro di origini italiane e tutti e quattro titolari durante la storica vittoria per 1-0 contro gli inglesi: Frank Borghi, Charlie Colombo, Gino Pariani e Frank Wallace.
I quattro erano anche compagni di squadra a livello di club, e nel Saint Louis Simpkins-Ford giocava con loro un quinto convocato di quei mondiali 1950, Robert Annis, che non aveva origini italiane ma che era sposato ad una donna il cui cognome da nubile era Montani. Come abbiamo visto nello scorso episodio, il Simpkins-Ford nasceva da una società amatoriale sponsorizzata dal negozio di un tale signor Carrenti, con ogni probabilità anche lui italo-americano, ed era la squadra dominante del calcio a Saint Louis e a livello nazionale in quel periodo, con due National Challenge Cup nel proprio palmares e che in quel 1950 si era laureata per la prima volta anche campione cittadina.
Borghi era il portiere, e la sua storia ricorda quasi sinistramente quella del portiere statunitense agli ultimi mondiali, Matt Turner: anche lui andò a giocare in porta dopo essere stato una promessa del baseball, principalmente perché non riteneva di avere le qualità per poter giocare con i piedi, tanto che, in campo, non batteva neanche le rimesse dal fondo. Fu lui l’eroe della partita con l’Inghilterra insieme all’autore dell’unica rete Joe Gaetjens dal momento che le sue parate evitarono che l’assedio britannico avesse successo. Wallace era nato Frank Valicenti, ma la sua famiglia aveva modificato il proprio cognome quando ancora era un bambino piccolo. Attaccante, era tra i più esperti del gruppo avendo ventisette anni, e durante la guerra era stato per sedici mesi prigioniero dei tedeschi. Gino Pariani era cresciuto come amico d’infanzia di Frank Borghi, era originario di Cuggiono ed era tra gli elementi più giovani della squadra, avendo solamente ventidue anni. Fu lui a segnare il primo gol degli Stati Uniti in quel mondiale, la rete del vantaggio in quella che sarebbe poi diventata una sconfitta per 3-1 contro la Spagna.
Charlie Colombo invece era arrivato al mondiale a trent’anni, roccioso difensore con lo stranissimo vezzo di scendere in campo indossando sempre dei guanti, caratteristica che gli è valsa il soprannome di Gloves. Ad otto minuti dalla fine della partita con l’Inghilterra fermò con un fallo al limite dell’area Stanley Mortensen, e dopo aver evitato di venire punito con un calcio di rigore ha visto la successiva conclusione di testa di Jimmy Mullen venire parata dal miracoloso Borghi. Fallo è forse un termine troppo leggero. Anche per gli standard dell’epoca Charlie Colombo era un maestro del palla o gamba. Come ha avuto modo di dire l’altro nativo di Saint Louis presente a quei mondiali, Harry Keough, se di fronte a Colombo avesse giocato come centravanti sua madre la povera signora “sarebbe stata nei guai”.

La storia della squadra del 1950 e il ruolo svolto dalla scena calcistica di Saint Louis è una parte importante di un film del 2005 diretto da David Anspaugh e intitolato The Game of Their Lives, con, tra gli altri, Gerald Butler, Wes Bentley, Jimmy Jean-Louis e Patrick Stewart, con protagonista quella nazionale statunitense e girato per una considerevole parte proprio nel quartiere di The Hill. Anche uno dei pochi personaggi al di fuori del campo da gioco aveva un forte legame con Saint Louis: Dent McSkimming era infatti l’unico giornalista statunitense arrivato in Brasile per seguire il mondiale, e lavorava per il St. Louis Post-Dispatch. Curiosamente, nel film appare una versione invecchiata di McSkimming interpretata da Patrick Stewart che guarda una partita di DC United, ma McSkimming è morto nel 1976, diciotto anni prima della nascita della MLS, e avrebbe compiuto cento anni nella stagione inaugurale della lega.
Come è facile immaginare, nessuna altra città statunitense aveva, all’interno della nazionale del 1950, una rappresentativa più folta di Saint Louis. Le uniche città in grado di avvicinarsi, fermandosi a quota tre, erano Chicago e la già citata Fall River, che nel periodo d’oro del Ponta Delgada portava tre calciatori di origine portoghese, Frankie Moniz e i fratelli John e Ed Souza. Saint Louis, invece, oltre ai cinque rappresentanti del Simpkins-Ford contribuiva anche con un sesto nome, Harry Keough del Saint Louis McMahon – interpretato nel film da Zachery Ty Bryan. In quegli anni il McMahon era la grande rivale cittadina del Simpkins-Ford. Avrebbero vinto il loro primo titolo cittadino nel 1952, iniziando una striscia di tre titoli consecutivi interrotta proprio dal Simpkins-Ford nel 1955. Se il nome però non vi è troppo familiare è perché, nella girandola infinita di nomi che, come avrete capito, caratterizza il calcio americano fin dalle sue origini, abbiamo già discusso di questa squadra con il nome che hanno fatto loro per oltre un trentennio e a cui sono legati i suoi maggiori successi, ovvero St. Louis Kutis.
Nel panorama del soccer, i Kutis hanno goduto di una longevità sorprendente, quasi unica, esistendo ininterrottamente dal 1947 al 1986, tenendo ancora oggi – dopo aver dato forfait ad un incontro della US Open Cup nel 2007, la squadra si concentra solo sul calcio giovanile, ma continua ad esistere – la denominazione derivata nel 1952 dall’impegno del signor Tom Kutis, proprietario di un’omonima azienda di pompe funebri, e questo da solo è bastato in alcuni degli anni più oscuri dello sport negli Stati Uniti a permettere loro di svolgere un ruolo fondamentale per la sua sopravvivenza. Addirittura nel 1957, lo stesso anno della prima vittoria in National Challenge Cup dei Kutis, la USSFA, come era allora nota la federazione calcistica statunitense, dopo due grosse sconfitte contro il Messico – 3-0 e 7-2 – nelle qualificazioni mondiali e con virtualmente zero chance di qualificarsi dal gironcino a tre decise di smantellare la selezione nazionale e di sostituirla integralmente con la squadra del Saint Louis Kutis per le due partite finali contro il Canada. Nella mente della federazione statunitense, una delle ragioni del fallimento della prima nazionale era stata la poca chimica di squadra tra calciatori sparsi per tutto il paese non abituati a giocare tra di loro – tra questi anche alcuni veterani del 1950 tra cui Harry Keough – e dunque optò, alla ricerca di una rimonta che avrebbe avuto del miracoloso, per l’approccio esattamente opposto. Il problema però, con ogni probabilità, non era l’affiatamento del gruppo, e i Kutis persero le due partite rimanenti contro il Canada 5-1 e 3-2.
Nella storia della nazionale statunitense, Saint Louis c’è fin dalle origini. Quando nel 1916 la federazione dovette formare il primo roster ufficiale della squadra per una tournée in Scandinavia, l’unico giocatore a non provenire dalla costa est era un nativo di Saint Louis. Matt Diedrichsen – il cui nome non mi fa escludere che abbia approfittato del viaggio per visitare qualche parente rimasto dall’altra parte dell’oceano – non scese in campo nella prima partita in assoluto dello USMNT contro la Svezia ma fu titolare nella seconda delle due partite, un pareggio per 1-1 al Frogner Stadion di Oslo, all’epoca nota come Kristiania, contro la Norvegia.
Di Diedrichsen non si sa molto altro se non per quella presenza e per la sua militanza negli Innisfails, la squadra vincitrice della prima edizione della Saint Louis Soccer League nel 1907, ma quello che sappiamo con sicurezza è che ha dato inizio ad una storia che ancora oggi non può dirsi terminata, quella tra la città del Missouri e la nazionale statunitense. I sei calciatori locali del 1950 sono un record, ma, anche se in proporzione minore, lo USMNT ha convocato almeno un giocatore con un legame diretto alla scena calcistica di Saint Louis in ogni mondiale a cui ha partecipato ad esclusione del 2010. Le prime due edizioni della coppa del mondo hanno rappresentato l’inizio di una tendenza che sarebbe culminata con i sei elementi del 1950. Da Saint Louis venivano due atleti nel 1930 – Raphael Tracey e Frank Vaughn del Ben Millers – e quattro nel 1934, tutti dallo Stix, Baer & Fuller allora dominante. I quattro erano il Babe Ruth del soccer Billy Gonsalves, William Lehman, Werner Nielsen e il più grande mistero nella storia del calcio statunitense, quella storia che ci ricorda che amare il soccer vuol dire inseguire dei fantasmi e che ha a che fare con il nome di William “Wee Willie” McLean.
Nel giugno 2022 i giornalisti di The Athletic Pablo Maurer e Matt Pentz hanno pubblicato il risultato della loro lunghissima ricerca, durata oltre due anni, sui destini di Wee Willie McLean, uno scozzese arrivato a Chicago a diciannove anni e che era scomparso nel nulla dopo aver passato nove mesi in un ospedale in seguito ad un crollo mentale. Una piccola ala di appena un metro e sessanta centimetri, McLean era arrivato a Saint Louis dopo aver perso due finali di Challenge Cup con i Bricklayers and Masons di Chicago, rendendosi immediatamente uno dei migliori giocatori del paese. McLean, infatti non era solo una parte della squadra che avrebbe preso parte ai mondiali italiani, ma ne era un elemento fondante insieme a tutto il nucleo dello Stix, Baer & Fuller, tanto da scendere in campo nella sconfitta per 7-1 degli statunitensi contro i futuri campioni del mondo italiani. Due anni dopo quel mondiale, però, la carriera di McLean era finita e, devono aver pensato molti nel corso degli anni, anche la sua vita. Nel 1937, McLean scompare nel nulla poco dopo essere tornato a Chicago in seguito all’uscita dall’ospedale in cui era stato curato.
Here's our 1933 winners, in glorious black and white https://t.co/9GM2MmvH14 pic.twitter.com/Ns2wHXKjUV
— U.S. Open Cup (@opencup) January 17, 2023
Willie McLean è il primo inginocchiato da destra
Nel 1944 una compagnia di assicurazioni sulla vita pubblicò sul Midwest Soccer News una richiesta di farsi avanti a chiunque avesse informazioni sull’ex calciatore. Come molte cose nel calcio statunitense di quell’epoca, Willie McLean è semplicemente scomparso nel nulla, dimenticato da un mondo che forse neanche sapeva che tipo di traguardo avesse raggiunto nella sua carriera. Willie McLean è stato presunto morto fino a che il tempo non ha reso evidente che, qualsiasi cosa fosse successa di lui, non poteva realisticamente aver vissuto così a lungo. Poi però sono arrivati due giornalisti di The Athletic e attraverso un lungo viaggio, un viaggio che li ha portati nella molto poco calcistica terra dell’Iowa fino a ritornare quasi al punto di partenza, hanno trovato nel cimitero di Cedar Park a Chicago una piccola lapide che il tempo aveva quasi completamente ricoperto di terra ed erba. Su di essa c’è scritto “in loving memory, Wm. Lang McLean, 1904-1977”.
Come molte delle cose raccontate in questa storia, uno potrebbe pensare che Wee Willie McLean sia una creatura di fantasia, una leggenda metropolitana. Mentre Maurer e Pentz, incuriositi dallo strano paragrafo della sua pagina Wikipedia che lo indicava come ancora vivo, seppure scomparso, alla veneranda età di centodiciassette anni, compilavano l’albero genealogico dell’ex calciatore e si mettevano in contatto con i parenti rimasti, i racconti che ascoltavano avevano proprio la stessa consistenza degli alligatori nelle fogne di New York City. Dello zio Bill qualcuno aveva lontani ricordi, la sua storia era conosciuta ma mai necessariamente approfondita, forse per questioni di vergogna in un’epoca in cui la sanità mentale non era trattata come oggi, qualcuno addirittura si ricordava di averlo incontrato a qualche celebrazione familiare tanti anni fa.
Quello che i due giornalisti di The Athletic avrebbero scoperto, però, è che William McLean è stato due fantasmi, uno scomparso misteriosamente nel nulla e uno apparso come condensato da un grosso banco di nebbia a Davenport, Iowa. Non svelerò troppo, perché il lavoro di Pablo Maurer e Matt Pentz merita di essere letto e sostenuto secondo i loro termini, ma se quella lapide di cui sopra vi suona strana, avete già svelato una parte della storia. Nel 1937 McLean scomparve da Chicago lasciando nella povertà più assoluta una moglie e una figlia di due anni usando la scusa del pacchetto di sigarette. Unico resto del suo passaggio una fotografia e una collana con sopra un pallone recante una scritta commemorativa della vittoria in National Challenge Cup nel 1932 degli Stix, Baer & Fuller. Pochi mesi dopo sarebbe riapparso come meccanico in una concessionaria dell’Iowa e si sarebbe anche risposato. Nel 1946, però, avrebbe sofferto un altro crollo mentale. Anni di colpi alla testa subiti su un campo da gioco quasi un secolo prima che a qualcuno importasse dei danni, oltre che un violento attacco subito nel 1928 a cui era miracolosamente sopravvissuto avevano martoriato il suo cervello. Inoltre, l’essere cresciuto con dei genitori violenti aveva probabilmente contribuito a renderlo violento anche nei confronti delle due mogli, anche se il tema degli abusi domestici, tanto quanto quello della salute mentale, all’epoca veniva affrontato raramente.
William McLean o Lang che sia sarebbe stato ricoverato al Mount Pleasant Mental Health Istitute per tredici anni, dove su di lui venne praticata la lobotomia brevettata da Walter Freeman, la stessa, per capirci, praticata su Rosemary Kennedy, la sorella di JFK, con gli stessi drammatici risultati. Sarebbe morto nel 1977 al Pine Knoll Center, un’altra struttura psichiatrica. In un appunto del 1948 un medico nella struttura in cui era ospitato scrisse, come se avesse appena assistito ad un vaneggiamento sintomo dei problemi di salute del paziente, “afferma di essere stato scelto per una selezione nazionale di calcio, andò a Roma per un campionato mondiale e fu intervistato dal Papa circa quattordici anni fa”.
Due anni dopo quell’appunto gli Stati Uniti sarebbero tornati ai mondiali di calcio, ma al momento della sua morte, il calcio statunitense stava ancora vivendo il lungo sonno che lo ha colpito per quarant’anni. Con il ritorno ai mondiali nel 1990, però, Saint Louis ha continuato a svolgere un ruolo importante nelle convocazioni degli Stati Uniti al mondiale. Un biglietto per l’Italia lo strappò Steve Trittschuh, nato a Granite City, in Illinois ma a tutti gli effetti un sobborgo a nord di Saint Louis, protagonista all’università con SIU Edwardsville, programma anche quello con sede nell’Illinois ma nel bacino di attrazione del Gateway Arch, con una storica rivalità calcistica con i Billikens di Saint Louis University. Nel 1994 toccò a Mike Sorber, nativo di Saint Louis e finalista dell’Hermann Trophy nel 1992 con SLU. Nel 1998, 2002 e 2006 Brian McBride, nato in un sobborgo di Chicago ma anche lui leggenda dei Billikens, così come Brad Davis, convocato da Klinsmann nel 2014 e nativo di Saint Charles, ad un ponte sul Missouri di distanza dai sobborghi di Saint Louis. Nel 2022, invece, il compito di rappresentare la capitale del calcio statunitense sul palcoscenico mondiale è toccato a due prodotti del vivaio dello Scott Gallagher, Tim Ream – anche lui passato a SLU – e Josh Sargent, entrambi usciti dallo stesso liceo, la St. Dominic High School.
Tim Ream / Josh Sargent
Both from St. Charles County, MO
Both from St. Louis, Mo
Both from St. Dominic High School
Both from Scott Gallagher Soccer ClubBoth started for @USMNT against Mexico.
The odds of that, slim.
— Tim Kelly (@TimKellyGK) June 7, 2021
E al femminile invece? Come abbiamo già visto, Saint Louis è, di fatto, anche il luogo di nascita del calcio femminile statunitense in una forma più organizzata di qualsiasi altro tentativo con scarse attestazioni sopravvissute lo avesse preceduto, con l’esistenza biennale della Craig League, capace di attirare allo stadio un pubblico nell’ordine delle migliaia, vent’anni prima del Title IX e trentacinque anni prima dell’esordio ufficiale dello USWNT. Saint Louis non sarà la capitale dello sport anche al femminile, ma può contare su una considerevole tradizione. Se nel calcio maschile abbiamo detto degli sforzi importanti fatti da un settore giovanile come lo Scott Gallagher, bisogna citare il lavoro del Jefferson Barracks Marine Soccer Club che, pur schierando alcune formazioni di ragazzi, è ben più noto per aver prodotto una delle migliori calciatrici di ogni epoca, Becky Sauerbrunn.
A trentasette anni, il prodotto da Virginia è ancora una delle migliori calciatrici del pianeta, ha vinto due mondiali, conta più di duecento presenze in nazionale e, anche se con lo USWNT il suo ruolo sta diminuendo vista la crescita di un paio di nuovi prospetti generazionali in difesa – Naomi Girma su tutte – è ancora in grado di dominare nella lega nazionale, essendo reduce dal suo primo titolo NWSL con la maglia delle Portland Thorns. Giocatrice eccezionale, con una puntualità negli anticipi, una classe, un’eleganza tale da far pensare cosa sarebbe potuta essere nell’epoca in cui il libero era ancora una figura dominante nelle difese da tutto il mondo, Sauerbrunn appartiene probabilmente all’ultima generazione a non aver avuto una lega professionistica stabile in cui replicare quello che faceva vedere in nazionale, e indossa questa considerevole sfortuna fieramente nella lista di squadre che ne ha caratterizzato la carriera, dalla semi-professionale, e oggi defunta, USL W-League all’altrettanto defunta, ma all’epoca professionistica, WPS, con la maglia delle magicJack, una squadra completamente assurda che forse meriterebbe un romanzo o una serie tv tutta sua, passando anche per l’Europa e in particolare la Norvegia.
Sauerbrunn è stata ed è ancora il volto principale del calcio femminile a Saint Louis, ma non è l’unico volto conosciuto a provenire da quella parte del paese. Da Saint Louis è uscita un’altra campionessa del mondo, la classe 1984 Lori Chalupny, quasi coetanea di Sauerbrunn e come lei cresciuta nel Jefferson Barracks Marine Soccer Club, che ha dato l’addio al calcio giocato subito dopo la vittoria del mondiale 2015. Centosei presenze in nazionale, Chalupny ha esordito con lo USWNT ad appena diciassette anni in una partita contro l’Italia, ed è stata una parte importante della squadra che per oltre un decennio ha inseguito la terza stella, riuscendo a coronare il proprio sogno esattamente all’ultima occasione disponibile. A differenza di molti dei colleghi uomini di cui abbiamo discusso in precedenza, però, Sauerbrunn e Chalupny sono emigrate verso alcuni dei programmi universitari di maggiore successo del paese per giocare a calcio all’università – Chalupny è andata nella squadra più vincente in assoluto, le North Carolina Tar Heels guidate da Anson Dorrance.
Pur non contando su alcun titolo nazionale né sui maggiori talenti usciti dalle giovanili locali, comunque, il programma femminile di Saint Louis University ha prodotto, come tra gli uomini, calciatrici importanti, tra di loro, in primo luogo, Meghann Burke, recentemente salita agli onori della cronaca come direttrice esecutiva dell’associazione giocatrici della NWSL e protagonista nelle trattative per il primo contratto collettivo nella storia della lega. E questo ci porta ad aprire un nuovo capitolo, quello legato al calcio universitario, che, come potreste aver capito dalla precedente rassegna dei calciatori saintlouisiani ai mondiali dal 1990 in poi, è un capitolo lungo, degno della sua pagina e del suo racconto, senza essere la parentesi di qualcos’altro. La storia del calcio a Saint Louis non può prescindere dalla narrazione della sua istituzione più celebre e, verrebbe da dire, sacra. Ed è di questo che ci occuperemo nel prossimo episodio di Fuori dal sommerso.
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