
Fuori dal sommerso – ep1
Una partita di calcio è ben lontana dall’essere la cosa più assurda che il Francis Olympic Field di Saint Louis abbia vissuto nella sua pluricentenaria storia. A vederlo oggi senza conoscerne il nome si faticherebbe a pensare a questa piccola struttura nei sobborghi ovest di Saint Louis vicino ad un circolo per il golf come a qualcosa di più che uno delle migliaia di stadi universitari – ospita infatti le squadre dei Bears di Washington University – che popolano gli Stati Uniti. La denominazione però è traccia innegabile di una storia ben più rilevante. Su quel terreno, nel 1904 – quando lo stadio poteva ospitare diciannovemila persone anziché le tremila di oggi – si svolsero i terzi Giochi Olimpici moderni. In particolare – e questa è veramente la cosa più assurda che quello stadio e i suoi dintorni abbiano visto – a Francis Field iniziò e terminò una maratona olimpica che sembra sfumare i contorni di quello che consideriamo essere un evento sportivo per sfociare nell’esperimento eugenetico, nella lotta alla sopravvivenza e nella commedia di paradossale alla Peter Sellers. Al contrario di quello che succede oggi, però, la maratona non fu l’ultimo evento di quei Giochi. Se infatti una partita di calcio non è l’evento più assurdo che le tribune del Francis Olympic Field abbiano visto, è quantomeno uno importante nella storia di questo monumento un po’ dimenticato dello sport mondiale, visto che a chiudere quelle Olimpiadi fu il torneo olimpico di calcio, il secondo dopo quello di Parigi e l’ultimo a non coinvolgere squadre nazionali, ragion per cui non è ufficialmente riconosciuto dalla FIFA.
A quel torneo avrebbero dovuto partecipare cinque squadre, tre canadesi e due statunitensi, ma visto il ritiro di due delle formazioni a nord del 49° parallelo tutte le partecipanti al torneo furono le prime a vedersi assegnate delle medaglie olimpiche nella disciplina – la consuetudine di premiare i vincenti con oro, argento e bronzo nacque infatti in quel 1904. A vincere il torneo fu il Galt FC, dalla cittadina canadese oggi nota come Cambridge, Ontario – e viene da pensare che il digiuno di centodiciassette anni sia il più lungo tra la prima e la seconda vittoria di una nazione nella stessa disciplina – e al secondo e terzo posto finirono rispettivamente il Christian Brothers College e il St. Rose Parish, due scuole che, oltre a condividere l’evidente origine religiosa, nello specifico cattolica, condividevano anche l’origine proprio in quel di Saint Louis.

Entrambi questi dati, l’appartenenza religiosa e geografica delle due squadre, non sono casuali o di poca importanza. Il calcio era arrivato a Saint Louis proprio grazie alla chiesa cattolica, dal momento che le varie parrocchie lo usavano, in quanto sport di squadra dal costo contenuto, come parte fondante dei loro programmi ricreativi per la popolazione locale. I programmi giovanili finanziati dal Catholic Youth Program nella Saint Louis post seconda guerra mondiale supportavano la partecipazione sportiva di oltre diciottomila ragazzini, e una delle squadre più vincenti della scena locale, il Kutis SC, era composto quasi interamente da ragazzi cresciuti grazie alle iniziative dei CYC. In città le varie parrocchie organizzavano tornei tra i vari isolati e i vari quartieri della città, facendo nascere rivalità fortissime tra le diverse zone della città, in particolare tra il Nord e il Sud, e alcuni preti arrivarono a definire il calcio “l’ottavo sacramento”. A proposito di preti, nel documentario della PBS locale A Time For Champions, da cui, prima che mi diate del blasfemo, ho tratto la citazione precedente, il religioso Louis Meyer racconta che in seminario a Saint Louis “il campo da calcio era il luogo sacro e si andava in giro con la Bibbia in una mano e gli scarpini nell’altra”.
Quella di Saint Louis era un’eccezione all’epoca, dal momento che le comunità statunitensi più interessate al calcio – tutte situate sulla East Coast – erano tali per la forte presenza di una comunità di immigrati europei, e immediatamente aveva portato alla nascita di una delle culture calcistiche più vibranti del paese. Proprio il Christian Brothers College, che adesso è un liceo privato ma all’epoca era un’università, è una delle squadre più vincenti nella storia del college soccer antecedente alla riorganizzazione del sistema che ha portato alla nascita della NCAA, vincendo la bellezza di sedici campionati nazionali consecutivi tra il 1890 e il 1905. Questa cultura calcistica però con il tempo si è separata dall’essere un’esclusiva della comunità cattolica cittadina e si è espansa a tutta Saint Louis. Da oltre cento anni infatti, in una città in cui il basket è praticamente inesistente e il legame col football è quantomeno controverso e comunque non altrettanto forte come in altre parti, Saint Louis è nota come la Soccer City USA.
Proprio per questo, in occasione dell’arrivo nella stagione 2023 della ventinovesima franchigia MLS, Saint Louis SC, è opportuno fare un riepilogo della storia d’amore tra la città del Missouri e il calcio, così da spiegare come mai quello in arrivo non sia e non possa essere un expansion team qualsiasi. Il legame tra la città e il suo sport prediletto ha percorso migliaia di chilometri, è volato in Italia e in Brasile, ha vinto mondiali, racconta di persone misteriosamente scomparse, della diaspora italiana e bosniaca, di un gruppo di pioniere e di un tedesco giramondo che dopo aver parato palloni in tutti i continenti ha usato la sua tendenza a provare sempre esperienze nuove per costruire da zero una squadra di calcio negli Stati Uniti. La storia è quella del calcio a St. Louis, ed è fondamentale per capire non solo perché la città del Missouri rappresenti una scelta logica per l’espansione MLS, ma anche per quale ragione, nonostante tante candidate, il titolo di Soccer City USA possa andare solo e soltanto a quella che siede all’ombra del Gateaway Arch.
Il 12 febbraio 1882 allo Sportsman’s Park, allora e per lungo tempo casa dei Cardinals del baseball e dei loro vari antenati, si giocò, con inizio alle tre e venticinque di pomeriggio ora locale, una partita amichevole di fronte a duemila persone utilizzando le “Association Foot-Ball Rules of Great Britain”, come riportato dal St. Louis Globe-Democrat del giorno successivo. Il sito dove un tempo si ergeva lo Sportsman’s Park si trova nel nord della città, all’incrocio tra Grand Boulevard e Dodier Street. Oggi è occupato da un Boys & Girls Club, e dove un tempo c’era la casa base oggi c’è una delle due endzone di un campo da football. La partita vide sfidarsi due squadre non meglio identificate note come gli “Hurleys” e gli “Hornets” e vide la vittoria degli Hurleys per 1-0. Riporta il St. Louis Globe-Democrat, infatti, che entrambe le squadre avessero accettato di emendare, per l’incontro, la regola 8, che vietava a tutti i giocatori, portiere incluso, di toccare il pallone con la mano. Quella regola, o la sua assenza, tornarono decisive quando il portiere degli Hornets fermò con le mani un pallone entrato nella propria porta. I suoi compagni chiesero il fallo, ma l’arbitro optò per assegnare la rete, e così la vittoria.

Non è menzionato nell’articolo da quanto tempo si giocasse a calcio in città, ma da alcune frasi, inclusa quella che parla della partita come di “una rivincita”, si intende che quella partita non sia stata la prima, ma solo la più antica di cui si abbia testimonianza. La storia potrebbe essere iniziata in una qualche altra data, chissà, magari anche prima di quel 11 ottobre 1866 in cui a Waukesha, Wisconsin, la squadra locale perse 5-2 contro il Carrol College in quella che è la più antica partita di calcio negli Stati Uniti di cui si sia a conoscenza, e che, curiosamente, precede di tre anni lo storico scontro tra le università di Rutgers e Princeton che viene considerato come la nascita del gridiron football. È improbabile, sarebbe una notizia sorprendente – già sapere che si è giocato prima a calcio che a football sul territorio statunitense lascia un sapore strano in bocca – ma se c’è una cosa che è meglio sapere finché siamo ancora nelle fasi iniziali di questa storia è che, per arrivare in fondo, una buona dose di fantasia potrebbe essere richiesta.
La storia del calcio statunitense, infatti, è quasi una leggenda metropolitana, qualcosa su cui molto raramente abbiamo testimonianze uniche e inequivocabili, una storia che si è scritta lontano dalle fotocamere, e che potrebbe tranquillamente non esistere se non fosse per una piccola comunità di pionieri, responsabile di aver tramandato una cultura sportiva anche per quel lungo periodo buio in cui semplicemente il calcio non sembrava esistere se non per le partitelle dei bambini di cinque anni nei parchi pubblici di tutto il paese. Il calcio statunitense viene dal sommerso, eppure è sempre riuscito a sopravvivere. Proprio per questa ragione, nel paese che aveva la televisione a colori quando in Italia doveva ancora arrivare la televisione-punto-e-basta, laddove la narrazione sportiva viene utilizzata per rimpiazzare quella mitologica, un’aura di fantastico aleggia ancora intorno al mondo del soccer, come se in tutti questi anni si fosse giocato nel Sottosopra, negli stessi esatti luoghi fisici che hanno visto primeggiare Babe Ruth, Bill Russell e Dan Marino, ma in un’altra dimensione, invisibile e impalpabile eppure, inesorabilmente, sempre presente. Potreste pensare che sia semplice dare una spiegazione a questo fenomeno, che lo scarso successo della nazionale maschile statunitense sul palcoscenico mondiale nel corso dei decenni abbia contribuito a far scemare l’interesse per queste storie, come un gatto che si mangia la coda o, per meglio dire, dell’oscurità che divora altra oscurità, eppure come spieghereste allora il fatto che questa oscurità caratterizza anche la parte dello sport in cui gli Stati Uniti dominano?
Degli albori del calcio femminile statunitense sappiamo che lo USWNT giocò per la prima volta nel 1985 nel Mundialito italiano, perdendo la loro prima partita per 1-0 a Jesolo contro le Azzurre padrone di casa. Sappiamo che la prima edizione del campionato NCAA di calcio si svolse nel 1982 e che ebbe lo stesso finale di altre venti edizioni nei quarant’anni successivi, con la vittoria della North Carolina guidata da coach Anson Dorrance – ancora oggi sulla panchina delle Tar Heels – e sappiamo, ovviamente, che il passaggio del cosiddetto Title IX nel 1972 garantì non solo alle calciatrici ma a tutte le atlete statunitensi opportunità storiche per lo sport femminile a livello mondiale. Ma certamente non possiamo pensare che il calcio femminile negli Stati Uniti sia nato appena cinquant’anni fa. Cosa c’era prima? Che volto avevano le pioniere di questo sport? Le domande sono tante, ma tra le risposte a molte di queste tornano spessissimo due elementi che sono il fondamento della storia che stiamo raccontando: Saint Louis e la comunità cattolica locale.
Recentemente Pablo Maurer e Meg Linehan di The Athletic hanno raccontato la storia della Craig League, una lega calcistica di Saint Louis nata nel 1950 e, per quel che possiamo sapere, una delle primissime competizioni organizzate di calcio femminile nella storia del paese. Già da quello strano nome possiamo capire il collegamento tra lo sport e la religione. Craig, infatti, sta per padre Walter Craig, prete della parrocchia di St. Matthew the Apostle. Ritrovatosi con un surplus all’interno dei fondi per lo sport giovanile, e sapendo che se non avesse speso quei soldi avrebbe dovuto ridarli indietro, padre Craig mise in moto la sua visione: il Craig Club, un’associazione composta da leghe per vari sport, dalla pallacanestro al baseball a, ovviamente, il calcio, e che avrebbe incluso, in una prima volta storica, anche campionati femminili.
Dopo aver pubblicato annunci alla ricerca di giovani calciatrici tra i sedici e i ventidue anni, alla porta di Craig arrivarono le candidature di settanta atlete, che vennero opportunamente divise in quattro squadre: Bobby Soccers, Bombers, Co-eds e Flyers. Si trattava di una lega professionistica come possiamo intenderla oggi? No, sicuramente non lo era, a partire dal fatto che le calciatrici vennero rifornite solo con le divise, e che tutto il resto dell’equipaggiamento avrebbero dovuto portarlo da casa. Però, c’è da dire, che nel 1950 nessuna competizione calcistica negli Stati Uniti era professionistica, e non solo per gli standard odierni. Per quello che è stato il calcio negli USA per gran parte della sua storia, la Craig League era una lega degli standard più alti. Le gesta delle calciatrici erano raccontate, con dovizia di foto a colori e anche storie da prima pagina, sul St. Louis Post Dispatch, e le partite venivano giocate in una struttura d’eccellenza per l’epoca come il già citato Sportsman’s Park, ad un quarto d’ora di cammino dalla chiesa di St. Matthew the Apostle, di fronte ad un pubblico di migliaia di persone ogni giornata.
Due anni dopo la lega avrebbe chiuso i battenti. Le sole due persone legate a quel campionato rimaste in vita al momento dell’inchiesta di The Athletic – le ex calciatrici Florence Murphy e Mary Wright, rimasta l’ultima sopravvissuta legata alla Craig League dopo la scomparsa di Murphy prima della pubblicazione dell’articolo – non si ricordano esattamente per quale ragione. Semplicemente, come quasi ogni storia nel mondo sommerso del soccer, si è spenta, ha smesso di esistere nel silenzio generale. Tutte le persone coinvolte si sono dedicate ad altro, vivendo vite comuni di fronte a persone inconsapevoli di trovarsi di fronte a pioniere di uno dei movimenti sportivi più vincenti della storia recente. Perlomeno Florence Murphy sarebbe diventata una pioniera in anche un altro campo, essendo stata delle prime donne a lavorare come programmatrice di computer per il governo statunitense negli anni ’60. Il silenzio intorno a Padre Walter Craig invece, si è recentemente rotto: il suo nome è apparso nel 2013, a oltre quarant’anni dalla sua morte nel 1971, nella lista di religiosi responsabili di abusi sessuali, essendo accusato di aver violentato un ragazzo nel corso degli anni ’60.
Come tutti i momenti della storia del soccer scomparsi nel silenzio generale e che sarebbero destinati all’oblio se non fosse per gli sforzi di pochi ma ardenti storici – oltre allo staff di The Athletic, e in particolare Pablo Maurer, penso anche a Dave Lange, autore di una mastodontica storia del calcio a St Louis senza cui questa serie non potrebbe esistere – si potrebbe essere portati a pensare che non abbiano significato nulla, che la lezione offerta non abbia avuto proseliti. In fin dei conti, andando a chiedere in giro, la maggior parte delle persone vi risponderebbe che il calcio femminile negli Stati Uniti è nato con il Title IX. Ma l’eredità della Craig League è ancora viva, e lo era da prima che The Athletic soffiasse via la polvere che negli anni ha coperto questa storia.
Becky Sauerbrunn, capitana dello USWNT e nativa di Saint Louis, sa che il soccer femminile non è nato con il Title IX, che l’origin story è ben più complessa, e si interseca con le strade che chiama casa. Sa cosa è stata la Craig League e sa che Mary Wright, l’ultima sopravvissuta tra le calciatrici, è una sua grande fan. Ma Sauerbrunn non è l’unica a indossare l’eredità della Craig League sulla manica. Perry Van Der Beck è stato il primo ragazzo prodigio del soccer statunitense. Il nativo di Florissant, Missouri, divenne nel 1978 il più giovane giocatore di calcio professionista degli USA e il primo ad essere scelto al Draft direttamente dal liceo, dopo che i Tampa Bay Rowdies lo scelsero diciottenne dalla St. Thomas Aquinas High School. Nella costante instabilità del calcio degli Stati Uniti dell’epoca, Van Der Beck non divenne il primo Pulisic, ma non ebbe, nel senso opposto, neanche veramente la possibilità di anticipare un Freddy Adu. Ha giocato gran parte della sua vita nelle leghe indoor ed avrebbe anche avuto di capitanare la selezione olimpica statunitense, se le Olimpiadi per cui la squadra da lui guidata si era qualificata non fossero state quelle del 1980, boicottate dall’amministrazione Carter, e dal 2016, è vicepresidente delle operazioni sportive della USL, la seconda divisione del soccer statunitense. Van Der Beck, ventitré presenze con lo USMNT, ha infatti un legame diretto con la vecchia Craig League: la sua passione per il calcio viene dalla madre Aileen, anche lei una delle Bobby Soccers, e per anni ha dovuto rispondere agli sguardi stupiti delle persone a cui raccontava da quale genitore avesse ereditato l’amore per la palla rotonda.
La storia della Craig League ha corso il grosso rischio di scolorirsi fino a diventare quasi irriconoscibile, come probabilmente chissà quanti altri avvenimenti nella storia del calcio statunitense, tra cui anche l’unico suo precedente conosciuto, una lega femminile a Bridgeport, Connecticut, di cui non si sa nulla se non che tra le organizzatrici ci fu una tale “Miss Helen Clark”, il primo arbitro donna nella storia del calcio statunitense. Però non lo ha fatto. Non abbiamo immagini, ovviamente, ma abbiamo ritagli di giornale, foto a colori, capitoli di libri. Ma soprattutto ci è rimasto qualcosa di molto più importante. Ci è rimasto l’esempio di un gruppo di pioniere, è rimasta quella memoria forse anche fugace che lo sport femminile non fosse solo una cosa giusta per principio, ma che avesse anche il potenziale per funzionare, ed è difficile pensare che come un vermiciattolo quell’esperienza relegata ai margini della coscienza collettiva non abbia aiutato coloro che, vent’anni dopo, avrebbero combattuto – e vinto – la battaglia per il Title IX. La storia della Craig League continuerà a sopravvivere anche quando l’ultima sopravvissuta dalle calciatrici sarà scomparsa, sopravvive nelle campionesse di oggi, nei loro successi e nella crescita che il loro lavoro ha impresso alla lega che paga loro uno stipendio. E, come andremo a scoprire nei prossimi episodi, non è un caso che sia successo, di tutte le metropoli statunitensi, proprio a Saint Louis. Perché questa è, ancora e nonostante tutto, la Soccer Capital USA.
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