La dinastia perenne di Portland e il terzo titolo NWSL

Questa è una di quelle occasioni in cui mi dispiaccio di non avere un’oratoria coinvolgente e una dizione perfetta perché la storia di questa finale NWSL, anzi, per meglio dire, le storie di questa finale NWSL meritano forse una qual certa inflessione che solo la narrazione orale può offrire. Il quadro completo di ciò che è girato intorno a questa partita, di tutti i momenti che ci hanno portato a questo momento, meriterebbero un podcast in dieci puntate, o un’intera stagione dei Rewinder di Secret Base. Gli oracoli – dai toni anche borderline complottisti – che amano prevedere i risultati delle partite sulla base di quale narrazione sarebbe la più avvincente si troverebbero a dover lanciare una monetina, incastrati nell’impossibilità di decidere per l’una o per l’altra parte. Nell’angolo destro – e qui rimpiango di non avere una voce alla Kenneth Branagh o da annunciatore di un incontro di boxe – un gruppo di atlete che da un anno intero sono ormai sotto gli occhi di tutti per colpe non loro, che si ritrovano a dover chiedere ai propri tifosi di riempire il Providence Park nonostante questi stiano protestando contro il proprietario che ha coperto uno dei più grandi scandali d’abusi nella storia del calcio femminile statunitense. Da un lato la più giovane MVP nella storia della lega, Sophia Smith, e insieme a lei, a prendersi le copertine, una vera e propria leggenda dello sport come Crystal Dunn che, ritornata dalla gravidanza, ha spedito le Thorns a questa finale in questa maniera qua.

 

 

Nell’angolo sinistro, invece, una squadra che lo scorso anno ha terminato la stagione regolare all’ultimo posto, che in off-season si è rinforzata sensibilmente salvo vedere le due nuove stelle della squadra – Sam Mewis e Lynn Williams – infortunarsi e saltare tutta la stagione, e che pure con praticamente lo stesso esatto gruppo – più qualche rookie – ha saputo qualificarsi ai playoff, vincere due scontri diretti in trasferta in condizioni tutt’altro che amichevoli e di fronte, in entrambi i casi, a pienoni da record. Tra di loro Lo’eau LaBonta, che quest’anno ha segnato più gol di quanti ne avesse fatti nei primi sette anni della sua carriera professionistica – 7vs6 – e che è addirittura è sotto contratto con questa franchigia dal 2016, avendo vissuto la prima era a Kansas City, la rilocazione a Utah, la cessione ai coniugi Long della franchigia a causa dei comportamenti razzisti di Dell Loy Hansen e il ritorno a Kansas City, con tanto del già citato ultimo posto.

 

Con queste premesse, non è un caso che quella svoltasi ieri notte all’Audi Field di Washington sia stata la prima finale nella storia della NWSL a giocarsi nel prime time televisivo statunitense – in realtà lo è, perché la decisione è stata presa ben prima di sapere quali squadre si siano qualificate, ma diciamo che quella che abbiamo visto è stata, per peso specifico, una delle migliori che potessero svolgersi in un contesto così importante. E da prime time è stata la prestazione di Portland, che si è aggiudicata il trofeo con un netto 2-0, sfruttando un gol per tempo – ed un paio di grossi scivoloni della difesa avversaria – e diventando così la prima franchigia nella storia a vincere tre anelli – in altre epoche, questo sarebbe valso il possesso permanente del trofeo. La squadra di Rhian Wilkinson ha saputo tenere il controllo della partita per tutti i novanta minuti, dimostrandosi particolarmente assetata di sangue in alcune fasi cruciali che le hanno permesso di limitare qualsiasi momentum Kansas City potesse decidere di acquisire. Al netto di alcune imperfezioni tattiche – Portland è stata graziata su un paio di contropiedi in cui semplicemente non riuscivano a muoversi come una singola unità, con un attacco lento nel recuperare terreno all’indietro – Portland ha saputo premere il piede sull’acceleratore quando necessario, nei primi cinque minuti di partita, conclusisi con la rete del vantaggio delle Thorns, e i cinque minuti immediatamente successivi all’autogol – il primo in una finale NWSL – del 2-0, in cui Kansas City aveva disperatamente bisogno, con mezz’ora ancora da giocare, di trovare il prima possibile un salvagente a cui aggrapparsi nella forma di un gol. In quei minuti invece più vicina alla rete ci è andata Portland, ammaccando qualsiasi spirito d’iniziativa avversario, e solamente una parata di Adrianna Franch di quelle talmente forti e rumorose da invertire il senso del moto di rotazione terrestre ha permesso a Kansas City di evitare un passivo ancora più pesante e di trovare la forza di costruire – troppo tardi, però – una parvenza di brancaleonesco assalto finale.

 

 

Dal lato Current, la principale recriminazione, oltre ai singoli errori individuali che hanno causato entrambe le reti, sta nella facilità con cui, appena la squadra di Matt Potter portava qualche calciatrice in più in avanti, Portland è riuscita a disorganizzare la struttura difensiva avversaria, specialmente in occasione dei due gol. Dopo i primi cinque minuti più aperti e caotici, in cui Portland era riuscita a tranciare le linee avversarie in transizione veloce per portare al gol dell’1-0 firmato da Sophia Smith, Kansas City ha lasciato il possesso per gran parte nei piedi delle Thorns e il piano era in effetti intelligente e nato per valorizzare le caratteristiche principali della squadra. La creatività e la tecnica di una calciatrice come Lo’eau LaBonta erano perfette per servire in profondità le contropiediste della squadra e due calciatrici come Hailie Mace e CeCe Kizer, con la loro velocità, resistenza e la falcata impressionante da centometriste, si sono rivelate portentose nel far risalire il pallone in zone offensive. Sotto questo punto di vista la strategia ha funzionato e Kansas City è stata anche in grado di creare occasioni pericolose come il colpo di testa che Kate Del Fava ha spedito sì a gonfiare la rete, ma da sopra la traversa.

 

Specialmente dopo il primo gol delle Thorns però, questa strategia da sola non sarebbe potuta bastare, soprattutto se accompagnata al pressing quasi nullo impostato dal tecnico inglese. Per facilitare la riconquista del pallone, ad un certo punto per forza di cose le Current avrebbero dovuto alzare il ritmo, e appena lo hanno fatto sono state distrutte dalla tecnica di Portland, che non ha perdonato la loro disorganizzazione. Raquel Rodriguez trova spazio in un fazzoletto di campo per ricevere il pallone dalla difesa, e subito sfrutta il mismatch creato dallo sbilanciamento di Kansas City per dialogare con Kuikka. Un rapido uno-due permette alla box-to-box costaricense di liberarsi in campo aperto e di creare una situazione di superiorità che verrà sfruttata per creare il cross su cui Addisyn Merrick e Adrianna Franch non si ritrovano.

 

Non possiamo più però rimandare il momento dell’articolo in cui parliamo di Sophia Smith, anche perché proprio l’azione del secondo gol è indicativa del fatto che l’MVP di questa NWSL sia ormai assurta al livello di atleta che anche quando difesa oltre l’eccezionale riesce a creare sistematicamente un vantaggio per l’attacco. Dieci minuti prima del raddoppio, in apertura di primo tempo, Portland aveva già saputo tagliare come burro la struttura di Kansas City per lanciare Sophia Smith in contropiede. Non essendo – per ora – una forma di vita aliena, però, di fronte ad una tripla marcatura neanche il prodotto da Stanford ha saputo uscirne fuori con una conclusione pulita. L’azione però è servita come prova generale, e soprattutto ha permesso alla squadra allenata da Rhian Wilkinson di evidenziare un nuovo buco nel piano di Kansas City e sfruttarlo a loro vantaggio. Nel prosieguo dell’azione citata Rodriguez serve Yazmeen Ryan sulla fascia perché sa che l’opzione dell’imbucata per Smith viene sistematicamente coperta dalla difesa avversaria e il cross si trasforma in un’autorete proprio perché la principale preoccupazione di Kansas City è neutralizzare il taglio della più giovane MVP nella storia della NWSL.

 

Se però Smith ha potuto aggiungere un altro record ai suoi traguardi di precocità – marcatrice più giovane in un NWSL Championship – è perché prima di adottare questa strategia, Kansas City Current aveva provato sulla sua pelle cosa vuol dire non dare l’adeguato rispetto al pericolo presentato dalla fenomenale centravanti di casa Thorns. Dobbiamo infatti tornare al quarto minuto della partita, quando, aiutata da un grosso buco nella difesa di Kansas City, Smith ha segnato il secondo gol più veloce in una finale NWSL – a soli due secondi dal primo. Chiariamo subito una cosa: quel brutto logo della NWSL non ha più ragione di esistere. Date a Sophia Smith qualsiasi cifra voglia in diritti d’autore per avere la smorfia con cui ha esultato in seguito al gol del vantaggio e semplicemente usate un file jpeg di quella foto come logo. Nessun creativo ed esperto di grafica – con tutto il rispetto per queste difficili professioni – potrà fare una migliore pubblicità alla lega e a quello che – ci auguriamo – voglia essere. Vedere una qualsiasi foto della sua esultanza fa risuonare in mente le celebri parole di Lady Gaga.

 

Sophia Smith è il volto dell’esuberanza giovanile, è un pugno in faccia, ti fa domandare come mai tu non brillassi alla stessa maniera quando avevi la sua età e allo stesso tempo ti spurga da qualsiasi peccato di nostalgia a cui ti possa essere mai abbandonato. Eppure Sophia Smith nonostante tutto è anche una giocatrice di altri tempi. No, forse mi sono espresso male, è comunque più vicina ad un automa replicante come Trinity Rodman che ad una qualsiasi stella del calcio di anche solo quindici anni fa. Quello che intendo dire è che, all’interno del suo unico e irripetibile portfolio di giocate, ci sono anche colpi che il calcio moderno sembra aver abbandonato. Con la pazienza e la voracità di un’archivista, Sophia Smith sembra scavare tra vecchie VHS alla ricerca di fondamentali da perfezionare. In un mondo in cui praticamente nessuno dribbla più il portiere, Sophia Smith ha fatto di questa mossa rischiosa e che più ti espone ad una potenziale figuraccia non solo la sua signature move, ma anche la prescelta per segnare il gol ad oggi più importante della sua carriera.

 

 

Cosa resterà dunque di questo NWSL Championship? Sicuramente resterà il fatto che potrebbe essere stata l’Ultima Danza di campionesse del calibro di Becky Sauebrunn e Christine Sinclair, che nonostante i rispettivi trentasette e quarant’anni sono state elementi chiave di una squadra vincente. Non abbiamo elementi che ci parlano del loro ritiro, ma l’urlo con cui la leggenda canadese ha salutato la sua sostituzione con Crystal Dunn sembrava come necessario per sciogliere venti anni di carriera condensatisi in un unico punto sul suo collo. Allo stesso tempo però potrebbe averci permesso di dare un primo sguardo al futuro di una nuova Dinastia pronta ad iniziare, con un core giovanissimo messo insieme da una franchigia che sembra essere riuscita a ricostruire senza neanche dover passare dal fondo classifica come il sistema vorrebbe obbligarti a fare, e che accanto ad un talento generazionale come Sophia Smith ha messo pezzi importanti come la rookie Sam Coffey e la più giovane calciatrice della lega, quella Olivia Moultrie che pur essendo nata nel 2006 è scesa in campo negli ultimi scampoli della finale contro Kansas City e che nel corso dell’anno ha dimostrato di saperci stare benissimo a questo livello. Ma resterà anche la traiettoria di una franchigia come Kansas City che vuole porsi come modello per come gestire una squadra professionistica femminile, e che è stata tutt’altro rispetto ad un anonimo sparring partner nella parata delle campionesse. Non era previsto che questo gruppo arrivasse fino a qui ed invece all’interno del sistema tutti gli elementi hanno saputo fare un salto di qualità. I playoff sono stati una cavalcata trionfale percorsa tutta in casa del nemico. Una partita andata male, per quanto importante, non può rovinare le certezze acquisite nel corso di una stagione intera da questa squadra. Per loro, e per tutti noi, l’appuntamento è alla stagione 2023 della NWSL, quella del decimo anniversario della lega, la più longeva nella storia del calcio femminile statunitense.

Facebook Comments