Le qualificazioni al mondiale 2023 della CONCACAF non possono essere prese sul serio

La conclusione non è stata sorprendente. Gli Stati Uniti hanno vinto il loro nono campionato continentale CONCACAF, valido anche come qualificazione ai mondiali di Australia e Nuova Zelanda del 2023, battendo in finale il Canada, l’unica altra squadra che sia riuscita a vincere la competizione – due volte, una delle quali, nel 1998, in un torneo senza Stati Uniti, qualificati direttamente al mondiale come paese ospitante. Pur essendo stato un campionato più difficile del solito, potenzialmente il più deludente da quello disastroso del 2010, che si concluse con la necessità di vincere uno spareggio intercontinentale contro l’Italia per qualificarsi al mondiale tedesco, e pur considerate le molte polemiche sullo stile di gioco di Vlatko Andonovski, forse influenzate dal livello altissimo che si sta vedendo agli Europei e che fa venire il timore a più di qualche appassionato che il gap tra gli USA e il resto del mondo si stia chiudendo, non solo la qualificazione dello USWNT non è mai stata in dubbio, ma non lo è stato neanche il suo dominio sulla competizione. La formazione del tecnico di origine macedone ha vinto tutte e cinque le partite del torneo, segnando tredici gol e non subendone nessuno, ha dominato l’attacco mostrando una profondità di talento spaventosa – contando anche l’assenza di una giocatrice come la fresca vincitrice della Champions League Catarina Macario – e sembra aver messo in ghiaccio la propria difesa per i prossimi quindici anni con delle prestazioni spaventose di Naomi Girma, che prima del torneo messicano aveva solamente una presenza in nazionale e sedici da professionista. Un dominio del genere non dovrebbe sconvolgere nessuno, anche considerando che la finale ha posto gli Stati Uniti di fronte ad una delle poche formazioni in grado di sconfiggerla nell’ultimo ciclo, le campionesse olimpiche del Canada, che per quanto talentuosa non può competere con la profondità di questo roster, ancora fuori scala rispetto al panorama calcistico mondiale. Quello che dovrebbe semmai sorprendere è che l’intera campagna di qualificazione ai mondiali delle due finaliste è durata, a tutti gli effetti, due partite.

 

Due partite, infatti, le prime due dei gironi di qualificazione, sono state quelle che hanno permesso a due delle nazionali più forti del pianeta di poter staccare il biglietto per il più importante palcoscenico del mondo. Come prime del ranking continentale infatti a Stati Uniti e Canada è riservato un biglietto d’accesso diretto al CONCACAF W Championship – privilegio non concesso neanche al paese ospitante, il Messico, che è dovuto passare attraverso un girone preliminare – e siccome il torneo è a otto squadre e assegna quattro pass per l’Oceania, ad entrambe è bastato vincere le prime due partite del girone per mettere in ghiaccio l’obiettivo principale della loro spedizione. L’allargamento del mondiale a 24 squadre e il conseguente passaggio degli slot riservati alla CONCACAF da due a quattro ha certo reso più facile il processo – il format si è ripetuto identico nelle qualificazioni per il mondiale del 2019, il primo con un aumento delle partecipanti – ma basta uno sguardo rapido alla storia delle qualificazioni mondiali nel Centro e Nord America per capire che questo è un trend storico e che lo USWNT ha sempre avuto una delle strade più facili alla qualificazione mondiale, e questo al di là del fatto che stiamo parlando della principale superpotenza del movimento. A partire dalle qualificazioni per il primo mondiale femminile nella storia, svoltosi in Cina nel 1991, gli Stati Uniti hanno avuto bisogno di ventidue partite per certificare il loro passaggio del turno. Questo è nello specifico il numero di partite necessarie per ottenere la qualificazione – per dire, vengono contate due partite sia per il ciclo del 2019 che per quello del 2023 pure se i tornei sono durati entrambi cinque partite, ma questo perché, come detto, la certezza della qualificazione è arrivata dopo aver vinto le prime due partite – ma anche se contassimo tutti gli incontri dello USWNT nell’ambito della CONCACAF non supereremmo quota trenta.

 

Per capire quanto sia piccolo questo numero: lo USWNT – grazie al suo successo e alla sua forza, che gli ha di fatto permesso di arrivare a giocare il numero massimo di partite possibili in tutti i mondiali – ha giocato cinquanta partite di Coppa del Mondo, più del doppio di quelle necessarie per staccare ciascuno dei biglietti di qualificazione. E prima che io vada avanti: questa non è una colpa della nazionale statunitense, né della loro federazione. Non è loro la responsabilità di organizzare queste competizioni. Il problema sta nella CONCACAF, che nel corso degli anni ha chiaramente dimostrato di non avere alcun interesse per lo sviluppo del movimento calcistico femminile, e che non ha particolare interesse a promuoverlo al livello che riservano al calcio maschile – che comunque non è eccelso, visto che la Gold Cup e la CONCACAF Champions League sono senz’altro i due tornei continentali meno pubblicizzati e meno spettacolari. E i segnali sono evidenti. La CONCACAF è l’unica confederazione senza una propria Champions League femminile – e dei piani per farne partire una dopo il mondiale 2023 non si è più saputo niente – e sembra lasciare alla completa autogestione le proprie federazioni sotto il punto di vista dello sviluppo dello sport, con conseguenze che vanno da Cedella Marley, figlia di Bob, che si deve prendere la responsabilità di finanziare le Reggae Girlz, una delle quattro migliori nazionali del continente, al posto della FA giamaicana, al gravissimo caso di abusi sessuali su giovani calciatrici che ha coinvolto l’ex presidente della federazione haitiana.

 

Il confronto tra il fitto programma di incontri che la CONCACAF riserva al calcio maschile e quello molto più scarno riservato al femminile è impietoso. Se lo USWNT ha avuto bisogno di 22 partite per qualificarsi a sette mondiali, lo USMNT ha avuto bisogno, per andare allo stesso numero di mondiali – quelli dal 1990 al 2022, escludendo il 1994, ospitato dagli Stati Uniti, e il 2018, a cui la nazionale non si è qualificata – di 108 partite. E questo senza neanche tenere in conto la situazione ambientale. Tutti i CONCACAF W Championship validi per la qualificazione mondiali si sono tenuti in campo neutro, con dei paesi ospitanti che, tranne la prima edizione in assoluto – svoltasi ad Haiti e che pur valendo per il passaggio ai mondiali non è mai stata riconosciuta dalla confederazione nord e centroamericana – sono sempre stati o il Canada, o gli Stati Uniti o il Messico. Al contrario, le qualificazioni maschili della CONCACAF prevedono sempre partite d’andata e di ritorno, sia nei turni ad eliminazione diretta che in quelli a gironi, costringendo tutte le squadre, potenze continentali incluse, a dover affrontare condizioni estreme e complesse come quelle climatiche – il caldo torrido, il freddo estremo, l’altura – ma anche quelle ambientali – terreni di gioco con più fango che erba, un pubblico rumoroso e disordinato, strategie tattiche molto più improntate allo scontro fisico e arbitraggi rivedibili – e tutto questo contribuisce non solo ad una situazione più equa per tutte le squadre coinvolte, ma anche ad uno spettacolo più coinvolgente – che nel calcio maschile ha non a caso dato origine ad un neologismo.

 

So benissimo che un appunto che si potrebbe presentare a questo discorso è che lo USWNT è troppo più forte rispetto alla concorrenza, che si qualificherebbe in qualsiasi situazione e con qualsiasi format, che non avrebbe nulla da imparare distruggendo 15-0 la nazionale dell’Honduras, fosse anche a San Pedro Sula. Non è una considerazione rara da leggere, e praticamente ogni finestra per le nazionali si legge su The Athletic un articolo del genere scritto da qualche giornalista inglese dopo l’ennesima goleada della loro nazionale. Ma questa è una considerazione che può venire solo da parte di chi ha già il coltello dalla parte del manico, di chi viene da una nazione dominante, che magari lo è stata fin praticamente dalla nascita dello sport, ed è a tutti gli effetti una visione privilegiata, perché manca completamente di analizzare un punto fondamentale, ovvero che è esponendo le nazionali al calcio di alto livello che queste riescono ad adattarsi e a migliorare. Nella storia del calcio ogni allargamento delle partecipanti al mondiale è stato visto dalle grandi nazioni come una svalutazione dell’importanza del trofeo, come un annacquamento del livello dato dall’ingresso di nazioni non meritevoli. Eppure il tempo ci ha insegnato che a tutte le espansioni è poi seguito un corrispondente aumento del livello medio delle nazionali. È sempre successo, succederà anche con il mondiale maschile a 48 e quello femminile a 24. Ma perché questo succeda è necessario permettere alle varie nazionali di fare esperienza a questo livello, anche a costo di goleade come quella subita dalla Tailandia nel mondiale 2019. E la CONCACAF sotto questo punto di vista deve fare molto meglio.

 

Proprio questo metodo di qualificazione che permette allo USWNT di andare ai Mondiali con due partite è, di fatto, quello che vive nei sogni di chi scrive quegli articoli, un torneo in cui tutte le altre fanno una fatica immensa per giocarsi le briciole che poi, naturalmente, verranno lasciate loro dalle big, ed è un metodo che per forza di cose non può che portare alla cementificazione di certe gerarchie, e dice molto dell’ipocrisia di molte persone che quando sarebbero le loro squadre a essere danneggiate gridano contro il calcio chiuso, contro operazioni che tendono a scolpire nella roccia certe classifiche di valore, ma che poi cercano apertamente di escludere altre nazionali solo perché non al livello di chi ha avuto un discreto vantaggio dato dall’aver iniziato a giocare prima. E, come detto, non è solo una questione di giustizia sportiva, o di meritocrazia, se così la volete chiamare, ma è anche una questione di spettacolo. È economicamente una scelta disastrosa dare forma ad un torneo così prevedibile e così poco competitivo, squilibrato in maniera così lampante verso alcune formazioni. Non c’è alcun vantaggio, e l’unica spiegazione logica che si può dare all’assenza di cambiamento è che chi ha il potere non ritiene di poterci fare veramente soldi e dunque preferisce disinteressarsene. Per migliorare la situazione nel futuro il minimo indispensabile è che il CONCACAF W Championship salga a sedici squadre. Scenario più ideale sarebbe quello di introdurre delle qualificazioni mondiali separate dal campionato continentale, e non ci sono veramente scuse che possano prevenire un’iniziativa del genere, nemmeno quella del calendario e del sovraccarico di partite che potrebbe apparire valida nel calcio maschile. Lo USWNT gioca ogni anno una quantità assurda di partite, ma quasi tutti gli incontri non sono altro che amichevoli, nulla di più che un tentativo da parte della USSF di mungere altri soldi dalla propria valvola principale. Sembra quasi di vedere, al di fuori delle poche finestre veramente competitive, una sorta di Harlem Globetrotters riempito con le migliori calciatrici del pianeta che fa tournée in giro per gli Stati Uniti come il Santos di Pelé faceva in giro per il mondo. È anche possibile che le partite siano di alto contenuto tecnico, sicuramente, ma alla fine dell’anno, quando andiamo a rivederle, è quasi difficile distinguerle le une dalle altre. Di spazio per inserire competizioni veramente importanti se ne potrebbe trovare. È solo una questione di volontà. E l’unica parte in causa che può mostrare questa volontà è proprio la CONCACAF.

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