La fine di una maledizione e la vittoria degli Stati Uniti Under 20

Prima ancora della vittoria contro la Repubblica Dominicana nella finale del campionato CONCACAF Under 20 la vera barriera stracciata dalla nazionale di categoria statunitense allenata da Mikey Varas è arrivata nel primo tempo della partita contro i padroni di casa dell’Honduras, di fronte al tutto esaurito dell’Estadio Morazan di San Pedro Sula. I tre gol raccolti nel primo tempo da una formazione che ha confermato il suo andamento dominante lungo tutto il torneo sono serviti infatti a spezzare una sorta di maledizione, quella che vedeva gli Stati Uniti mancare la qualificazione ai Giochi Olimpici dal 2008, ed era destino che quella maledizione andasse ad infrangersi una volta per tutte proprio contro l’Honduras. Per chi seguisse con una qualche attenzione il calcio a cinque cerchi non dovrebbe essere una sorpresa, visto che l’Honduras è dal 2008 una presenza fissa al torneo olimpico maschile, ma quello che potrebbe essere sfuggito è che proprio la nazione centroamericana è stata in questi quattordici anni la diretta responsabile delle assenze statunitensi dalla competizione. Appena quindici mesi fa l’errore di David Ochoa – che pochi mesi dopo avrebbe deciso di rappresentare il Messico – scavava un solco troppo profondo per permettere alla nazionale di Jason Kreis di risalire, e alla stessa maniera nel 2016 le due nazionali si erano scontrate nella semifinale, ultimo ostacolo prima di Rio, con una doppietta della Panterita Elis a spedire l’Honduras in Brasile. Nel 2012 fu la sconfitta contro il Canada a mettere gli Stati Uniti in una situazione spiacevole, ma fu il pareggio nell’ultima partita del girone sempre contro l’Honduras a fermare il percorso della nazionale. Facile dunque capire come la terza presenza consecutiva dell’Honduras all’ultimo atto prima della qualificazione olimpica rappresentasse per i giovani statunitensi un momento critico, da sfruttare per ricacciare in qualche angolo sperduto della propria memoria i fantasmi del passato. Forse prestando fede al motto di Christian Pulisic – quello sulla voglia di queste nuove generazioni di cambiare la percezione che il mondo ha del calcio maschile statunitense – Paxten Aaronson, Quinn Sullivan e compagni ci hanno messo un tempo per chiarire la pratica e per rassicurare qualsiasi appassionato statunitense ancora scottato dalle sconfitte dei cicli precedenti, facendo staccare con due anni d’anticipo agli Stati Uniti il biglietto per Parigi.

 

 

Ok, adesso sono pronto a rispondere alle vostre domande: perché le qualificazioni olimpiche si sono svolte con così tanto anticipo? E soprattutto perché ci sono gli Under 20 a giocarsi una qualificazione ad un torneo per Under 23? La risposta breve è che CONCACAF gonna CONCACAF, e la risposta più lunga in effetti potrebbe non esserci neanche, se non accennando ad una potenziale difficoltà a trovare spazi nel calendario e alla generale disorganizzazione di alcune delle ultime edizioni delle qualificazioni olimpiche, come quelle del 2021 organizzate fuori da una finestra FIFA con tante conseguenze per quel che riguarda la presenza di molti dei principali talenti continentali. Con un solito sistema cervellotico la federazione continentale ha optato per una fase a gironi con le migliori sedici squadre per ranking, con passaggio del turno per le prime tre di ogni girone e poi un’eliminazione diretta in cui entrano direttamente agli ottavi le quattro vincitrici del torneo di qualificazione, con le quattro semifinaliste qualificate per i mondiali indonesiani del 2023 e le due finaliste qualificate per Parigi 2024. Fatto sta che la situazione si è rivelata a suo modo un grosso vantaggio per gli Stati Uniti che pur con tutte le loro difficoltà a livello Under 23 hanno raccolto enormi successi tra gli Under 20, e non solo a livello continentale. Nel corso del decennio passato, principalmente sotto la lunga guida di Tab Ramos, gli Stati Uniti hanno raggiunto per tre volte consecutive i quarti di finale dei mondiali di categoria, oltre ad aver vinto anche le due edizioni del torneo continentale precedenti a questa appena conclusasi in Honduras, e anche questo nuovo ciclo guidato dall’ex assistente di FC Dallas Mikey Varas ha mantenuto la tradizione, confermando il trend ormai evidente della sempre maggiore capacità da parte degli Stati Uniti di produrre i migliori talenti a livello continentale.

 

Gli Stati Uniti si sono presentati a questo torneo con alcune mancanze importanti, con almeno quattro teorici titolari fissi di questo ciclo che per le più varie ragioni non sono stati presenti non solo nel campionato continentale, ma più in generale fin dall’inizio di questo nuovo ciclo l’autunno scorso. Ricardo Pepi è diventato quasi dal nulla il centravanti titolare della nazionale maggiore, e anche se dal suo passaggio all’Augsburg sembra aver perso un po’ di brillantezza certamente è uno dei nomi con più probabilità di prendere un aereo per il Qatar, mentre Jonathan Gomez è nel mezzo della solita battaglia di recruiting tra Stati Uniti e Messico, e potrebbe essere pure lui già un nome d’interesse per la nazionale maggiore – e le posizioni di punta e terzino sinistro rappresenteranno alcuni dei principali dubbi che dovrà sciogliere Mikey Varas. Giocatori come Dante Sealy e Justin Che, invece, sono stati tenuti a casa così da favorirne l’integrazione nei loro nuovi ambienti, con gli ex FC Dallas rispettivamente in prestito biennale a PSV e Hoffenheim, ma dovrebbero sicuramente rientrare nel giro quando arriverà il momento di stilare la lista dei ventitré per l’Indonesia – sempre che la loro crescita non li porti a diventare già elementi d’interesse per la prima squadra. Eppure, nonostante queste assenze, ciò che ha stupito maggiormente in positivo di questa squadra è stata la profondità del roster, la capacità di trovare minuti di qualità praticamente da qualsiasi giocatore in organico e la possibilità per il tecnico di ruotare un gran numero di elementi nelle partite decisive del torneo senza perdere qualità. Guardando la squadra dall’esterno è difficile stabilire gerarchie precise in quasi ogni posizione del campo, specialmente nelle zone più avanzate di campo, considerando la scelta di Varas di riempire la squadra di esterni/trequartisti adattabili a centrocampo e magari anche come falsi nueve anche forse perché è in quelle posizioni che si trovano i talenti più conosciuti e discussi di questo gruppo.

 

 

Tra i tanti giocatori protagonisti di un torneo memorabile, il premio di MVP è andato a Paxten Aaronson. Il classe 2003 è stato il miglior marcatore del torneo mostrando similitudini con il gioco del fratello Brenden ma possibilmente con ancora più tecnica. Ma in generale tutta la nazionale è stata una squadra a marchio Philadelphia Union, con ben tre elementi oltre ad Aaronson che hanno dimostrato perché il loro settore giovanile è ormai con ogni probabilità il migliore del paese. Quinn Sullivan, con il classe 2004 degli Union che ha dominato e segnato praticamente da qualsiasi posizione, prendendosi spesso responsabilità da centravanti ma impressionando anche sulla fascia o da posizione più arretrata. Pur essendo il ciclo iniziato da nemmeno un anno, Sullivan ne è già il principale protagonista ed è su una strada da record, avendo già superato la doppia cifra in gol pur senza aver toccato la doppia cifra in partite giocate e avvicinando sensibilmente il record di marcature per la categoria Under 20 statunitense, record che appartiene a Brek Shea, la cui quota quindici non deve spaventare molto un giocatore che ha ancora un anno intero nella categoria per completare la scalata. Jack McGlynn si è rivelato forse l’opzione più solida come perno basso del centrocampo, mentre Brandan Craig è diventato titolare fisso al centro della difesa, mostrando calma, controllo, ottima tecnica e anche rivelandosi un ottimo tiratore da calcio piazzato. Se c’è qualcuno che ha alzato notevolmente le sue quotazioni durante questo torneo, quello non può che essere Diego Luna, il giocatore più divertente del torneo e forse già adesso dell’intera player pool dello USMNT. Giocatore con il fisico strutturato alla stessa maniera di un bulldog francese, Luna calcia i rigori con il destro e tira gli angoli con il sinistro, ed è stato semplicemente elettrico lungo tutta la durata del torneo, lasciando sicuramente una bella impressione nei tifosi di Real Salt Lake che dalla prossima settimana potranno iniziare veramente a godersi le sue giocate dopo il suo trasferimento da El Paso Locomotive. Altro giocatore che ha scalato molte gerarchie, rivelandosi l’elemento più insostituibile all’interno del proprio reparto è stato Alejandro Alvarado. Il classe 2003 ex vivaio dei Galaxy ha avuto modo di esordire quest’anno nella prima divisione portoghese con la maglia del Vizela, ed è un centrocampista con un grande controllo negli spazi stretti, capacità di dettare i tempi e con ottime doti di leadership in mezzo al campo, e lungo tutto il torneo ha saltato solo due partite da titolare non giocando in una, curiosamente proprio l’unico pareggio nella – sfortunata – partita contro il Canada nella fase a gironi. Insieme a lui, a ricordare il disastro che sono i Los Angeles Galaxy nel promuovere gli eccezionali prospetti che escono dal loro vivaio in prima squadra, ha fatto bene come terzino su entrambe le fasce – ed indossando spesso la fascia da capitano – Mauricio Cuevas, passato lo scorso gennaio al Club Bruges a parametro zero. Se in porta Chris Brady è stato poco impegnato il suo essersi preso il posto da titolare ci ricorda che anche vendessero Slonina questa estate i Chicago Fire potrebbero contare su un altro portiere classe 2004 dalle potenzialità generazionali, e non è da escludere che la sua presenza alle spalle del coetaneo non possa spingere la franchigia stessa ad optare per una cessione senza alcun tipo di prestito.

 

Ma per parlare del movimento calcistico giovanile degli Stati Uniti e del successo che ha avuto all’ultimo torneo Under 20 CONCACAF non possiamo limitarci a parlare solamente degli Stati Uniti, per quanto questa frase possa suonare strana. Non è una novità che alcuni dei migliori prospetti del paese possiedano il passaporto di almeno un’altra nazionale, ma la tradizione degli ultimi anni ci ha raccontato che la stragrande maggioranza di questi ragazzi sono di origine messicana – e in effetti, oltre a quelli presenti nella formazione statunitense, anche il Messico poteva contare su tre dual-national, ovvero Antonio Leone e Christian Torres di LAFC e Jonathan Perez dei Galaxy. Quello che invece abbiamo visto nelle ultime settimane in Honduras è che praticamente tutte le nazionali presenti al torneo, incluse alcune delle maggiori sorprese, hanno tratto enorme beneficio dalla crescita del livello dei vivai MLS, forse cercando di replicare il successo ottenuto da El Salvador, che grazie a veterani come Alex Roldan e Eriq Zavaleta è arrivata al girone finale delle ultime qualificazioni mondiali, o forse rimanendo all’interno di quello che è un trend più generale, aiutato dalla globalizzazione e che ad esempio ha permesso a nazionali come Curaçao, Aruba e Suriname di sfruttare la diaspora nei Paesi Bassi per alzare il proprio livello calcistico anche nelle selezioni giovanili. In particolare a prendersi la scena sono state le due nazionali che – a sorpresa – hanno ottenuto la qualificazione ai mondiali del 2023, ovvero Repubblica Dominicana – poi finalista e quindi qualificata anche alle Olimpiadi – e Guatemala – che eliminando ai rigori il Messico nei quarti ha regalato l’upset dell’anno.

 

 

Entrambe le squadre avevano rispettivamente quattro e cinque rappresentanti di origini statunitensi nei propri roster, ma tutti questi erano elementi cruciali, e alcuni di loro sono risultati tra le principali stelle del torneo. La Repubblica Dominicana poteva contare in rosa su cinque giocatori da vivai statunitensi, e ha avuto in Edison Azcona una delle più grandi sorprese del torneo. Tre reti in Honduras, il classe 2003 di Inter Miami ha impressionato abbastanza da meritarsi un prestito in USL a El Paso, dove potrà prendere l’eredità proprio di Diego Luna in una squadra molto offensiva e con un grosso focus sul possesso palla. Sempre dal vivaio di Inter Miami viene un’altra gemma del recruiting dominicano, il classe 2005 Israel “Izzy” Boatwright, terzino o esterno capace di giocare con entrambi i piedi e di essere imprevedibile con il suo dribbling. Dal Texas viene invece il portiere titolare di questa squadra, quello Xavier Valdez degli Houston Dynamo che ha giocato tutte le partite del torneo tranne la finale. Nel Guatemala invece ha fatto bene Nelson Cabrera, ex università di Rutgers e che vedremo in USL l’anno prossimo con Queensboro, e come lui anche il terzino Red Bulls Ariel Recinos e il centrocampista scuola Earthquakes Allan Juarez. Più di tutti però, con prestazioni che lo hanno elevato a forse il secondo miglior giocatore del torneo dopo Aaronson, il vero trascinatore della nazionale guatemalteca è stato il classe 2003 Arquimides Ordonez, amichevolmente noto come “Quimi”, attaccante della seconda squadra di FC Cincinnati con l’attenzione sempre più rivolta alla prima squadra. Autore di cinque reti nel torneo tra cui marcature fondamentali per mandare ai rigori la semifinale persa con la Repubblica Dominicana e soprattutto lo storico quarto vinto contro il Messico e che è valso la qualificazione al mondiale, Ordonez è una punta fisicamente ben strutturata, rapido e con una buona tecnica, un leader e trascinatore che ha alzato notevolmente le sue quotazioni, diventando forse uno dei dual national da seguire con maggiore attenzione e con cui la USSF dovrebbe essere già in contatto.

 

Al di fuori delle due grandi sorprese del torneo comunque, molte nazionali hanno sfruttato non solo la diaspora ma anche quella sempre più fruttuosa in termini calcistici negli Stati Uniti. Se escludiamo Porto Rico, i cui giocatori sono tecnicamente tutti cittadini statunitensi, la nazionale con più dual national è El Salvador – a conferma del trend in atto nella nazionale maggiore – con otto rappresentanti di passaporto statunitense, ma anche in nazionali con quote meno consistenti non mancano giocatori interessanti. Cuba ha sfruttato il ricchissimo settore giovanile di Inter Miami per prelevare Dairon Reyes, mentre Haiti può contare su Omre Etienne, fratello minore del nazionale haitiano Derrick Jr, e sul sotto-età classe 2006 Bryan Destin, anche lui da Inter Miami, mentre Giamaica e St Kitts e Nevis, pur avendo approfittato maggiormente delle comunità di immigrati in Inghilterra, hanno comunque messo in mostra prospetti come Kobi Thomas di Inter Miami e Zion Scarlett di Columbus, scesi in campo con i Reggae Boyz, e l’attaccante dell’università di St John Micaah Garnette, rappresentante invece del piccolo arcipelago caraibico.

 

I tornei di calcio giovanile vanno sempre presi con le pinze e sono, a loro modo, un evento unico, per molti il singolo evento in cui il potenziale si mette nella stessa linea dell’abilità e l’eclissa. Per molti di questi giocatori questo potrebbe tranquillamente essere il momento più alto della loro carriera. È anche questo che costruisce l’enorme fascino di competizioni del genere. Proprio per questo, almeno a livello giovanile, si tende a valutare il successo di un’organizzazione non – solo – dal livello dei talenti che vengono prodotti, ma anche dalla quantità. Avere tanti giocatori promettenti vuol dire avere tanti biglietti della lotteria e quindi maggiori possibilità di centrare il jackpot. E dunque se la cautela è sempre opportuna quando si cerca di trarre nozioni da un evento sportivo di questo tipo, c’è sicuramente almeno una cosa che abbiamo imparato da questa edizione del campionato CONCACAF Under 20: gli Stati Uniti sono diventati i leader continentali nella produzione di talento calcistico, e le altre potenze continentali – soprattutto il Messico – devono iniziare a pensare in grande per riuscire ad invertire il trend.

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