The Dynasty

Stando al dizionario Merriam Webster il primo utilizzo della parola “dynasty” in un contesto sportivo risale ad un articolo del 1905 del Washington Post intitolato “John T. Brush’s baseball dynasty”. John T. Brush era il proprietario dei New York Giants sotto la cui guida la franchigia newyorchese alzò quattro pennoni della National League e uno, proprio in quel 1905, nella seconda edizione assoluta delle World Series di baseball. Da quel momento in poi il termine, da poco sdoganato per qualcos’altro che non fossero necessariamente famiglie regnanti del vecchio continente si fece strada nel mondo dello sport statunitense, prima nel baseball, che a quell’epoca era praticamente l’unico sport formato come lo conosciamo oggi negli USA, e poi in tutte le altre discipline, dal football, con i dominanti Packers di “Curly” Lambeau, al basket, con i Boston Celtics di Bill Russell, creatura mitologica metà uomo e metà sistema difensivo. Nel mondo dello sport americano la definizione stessa di cosa possa ambire a farsi chiamare Dynasty è frutto di continue polemiche, e l’importanza e la specificità di questo termine indice di un sistema sportivo che, a differenza di quello europeo, non riconosce una tendenza al dominio da parte di una singola squadra. Un linguista potrebbe ricordarvi di quella storia per cui una lingua è tanto più particolareggiata nel descrivere un certo referente, tanto più quello è importante all’interno di quella cultura. Il fatto che nel vecchio continente, anche in quella Inghilterra in cui teoricamente la parola “dynasty” ha avuto origine, non esista un preciso equivalente utilizzabile è unanimemente riconosciuto come tale e la cui origine possa considerarsi esterna ed indipendente dall’aumento di popolarità dello sport americano e del suo linguaggio all’interno delle nostre culture credo spieghi molte delle differenze che intercorrono tra i due mondi. Gli Stati Uniti d’America hanno con il dominio e il successo continuato un rapporto diverso rispetto a quello che esiste nel resto del mondo, non fosse altro perché l’intera costruzione del sistema si basa sul principio di rendere più difficili le conferme al vertice. Ecco perché il termine “dynasty” è così raro, particolare, unico e non può essere certo rilasciato con leggerezza. Perché una dinastia è un bug nel sistema, un piano malefico di un supercattivo che riesce alla perfezione, contro cui neanche gli Avengers del cap, del draft o del revenue sharing possono fare qualcosa.

 

Nel corso della sua storia la MLS ha avuto la sua buona dose di dinastie, più precisamente due e ancora più nello specifico sotto la guida della stessa persona: Bruce Arena. Prima agli albori della lega con DC United e poi nel glamour della MLS 2.0 con David Beckham, Landon Donovan e Robbie Keane ai Galaxy, il tecnico dello USMNT capace di arrivare ad un fallo di mano dalla semifinale ai mondiali 2002 ha collezionato sei anelli da campione MLS. Ma in tempi recenti una terza dinastia si è aggiunta alla lista, e qui l’oggi tecnico dei New England Revolution c’entra poco. I Seattle Sounders sono senza dubbio la squadra che ha segnato l’ultimo quinquennio della MLS e, pur potendo contare ad oggi “solo” su due MLS Cup, nella notte italiana sono riusciti in quello che a nessun’altra franchigia, non nel nuovo formato che la competizione ha assunto nel corso degli anni, era mai riuscito, ovvero vincere la CONCACAF Champions League – DC United e gli LA Galaxy hanno vinto il trofeo rispettivamente nel 1998 e nel 2000, ma la struttura della competizione era ancora molto spartana, con solo tre partite giocate, e solo DC United dovette affrontare una o più squadre messicane nella loro strada verso la vittoria. Dopo un tiratissimo 2-2 nello storico Estadio Universitario di Città del Messico raggiunto solamente con due calci di rigore uno dei quali fischiato già a recupero inoltrato, i Sounders sono riusciti a sconfiggere la squadra messicana con un netto 3-0 in un Lumen Field strapieno e bollente. Nelle settimane precedenti all’incontro una campagna intensiva sui social da parte della franchigia, che ha coinvolto anche leggende dello sport di Seattle come MarShawn Lynch e della storia dei Sounders come Brad Evans, ha presentato al pubblico locale l’evento come un “big f’ing deal” e la città di Seattle, che ha nella loro franchigia calcistica la presenza sportiva più longeva nella storia cittadina – Seahawks e Mariners, pur avendo resistito in forma continuativa, sono nati rispettivamente due e tre anni dopo la squadra dell’allora NASL – ha risposto come se non avesse bisogno di promemoria per un evento del genere. In uno stadio che dal suo arrivo in MLS primeggia per capienza, il mare di rave green e cascade shale ha ricordato cosa voglia dire essere una “dynasty” fuori dal campo ancora prima che dentro. Perché se vogliamo discutere cosa rappresentino questi Sounders per la MLS e come dinastia, dobbiamo partire dal presupposto che non ci sarebbero state molte delle circostanze necessarie alla sua realizzazione senza una storia quasi cinquantennale fuori dal campo. Guardare una partita dei Sounders è uno sguardo nel futuro del soccer, è la realizzazione di cosa riuscirà a diventare questo sport negli Stati Uniti quando nessuno di quelli che stanno scrivendo o leggendo questo pezzo saranno in vita e in grado di testimoniarlo. Guardando alla confusa storia di quei pochi marchi che siano sopravvissuti allo scorrere del tempo e che resistono ancora nella MLS odierna, si potrebbe pensare che non ci sia un vero collegamento tra tutte quelle franchigie di tutte quelle leghe diverse sempre conclusesi con un fallimento – della squadra e della lega – eppure questo vorrebbe dire negare l’impatto avuto da queste squadre sulla loro comunità pur nella loro frammentata esistenza. Quando, in vista dell’ingresso in MLS nel 2009, la franchigia propose tre nomi per la nuova squadra, l’assenza di “Sounders” tra le proposte causò una rivolta nella popolazione locale. Sotto la spinta tutt’altro che cordiale dei futuri tifosi, la proprietà introdusse la possibilità per ciascun votante di suggerire un nome per la franchigia. Il 49% delle votazioni presentavano una qualche variazione di “Seattle Sounders” al loro interno.

 

E se mi soffermo per un momento su questo lato della storia, è perché questa tradizione, questa storia, questa cultura locale estremamente viva sono direttamente responsabili della dinastia che i Sounders sono stati in grado di creare sul campo. Sia chiaro, non stiamo parlando di una di quelle conseguenze quasi magiche e intrise di retorica che si possono sentire in giro nel mondo dello sport. Non stiamo parlando di DNA Juve, di Pazza Inter, di Mes Que Un Club. La storia recente dei Seattle Sounders è direttamente collegabile con quella degli storici Seattle Sounders e in generale degli ultimi cinquant’anni di calcio a Seattle perché le persone che fanno e spostano la cultura della franchigia vengono da quel mondo, non ne fanno semplicemente parte ma hanno contribuito a costruirlo e a renderlo così solido nel corso degli anni. Entrambi i direttori sportivi nella storia della franchigia, prima Chris Henderson tra il 2008 e il suo addio direzione Inter Miami nel 2021, sia Craig Waibel, che ha preso il suo posto, vengono dal Pacific Northwest, hanno giocato per i Sounders in USL – Waibel – o comunque per squadre locali – Henderson. Una delle stelle della squadra, Jordan Morris, è non solo un homegrown, un giocatore diventato un potenziale candidato MVP con la squadra in cui è cresciuto e con cui ha firmato in uscita dal college rifiutando le sirene del Werder Brema, ma è figlio del medico sociale della squadra, Michael Morris, che a lungo ha anche svolto il ruolo di fisioterapista per i Sounders della USL nei primi anni 2000. Ma soprattutto, davanti a tutti per legame con la storia calcistica di Seattle e per impatto sulla creazione di questa Dynasty, c’è Brian Schmetzer. La sua storia era stata argomento di un mio pezzo due anni fa. Brian Schmetzer è l’unico punto di contatto tra tutte le iterazioni dei Seattle Sounders che si sono susseguite nella storia, dalla NASL alla A-League, dalla USL alla MLS, tanto quanto il nome della squadra e ancora di più dei colori sociali, che hanno subito molte variazioni, sia pure leggere, nel corso degli anni. Ma è anche l’architetto di questa squadra, un tecnico che ha avuto un impatto enorme su tutti i giocatori passati in rave green, prima come vice di Sigi Schmid e poi come capo allenatore di una squadra capace di vincere due MLS Cup.

 

Brian Schmetzer è a casa all’interno dell’organizzazione di Seattle. Approccia le conferenze stampa con uno stile da Regular Joe che non è affatto una maschera ma che, come ricorda Matt Pentz di The Athletic, che sulla prima MLS Cup dei Sounders ci ha scritto un libro, è diretta eredità dell’esserlo effettivamente stato per gran parte della sua vita, lavorando come capo di un’azienda di costruzione prima di essere assunto da Adrian Hanauer come allenatore dei Sounders allora in USL. Lui più di chiunque altro in MLS è la dimostrazione di come anche nel calcio, e non solo nelle altre leghe professionistiche nazionali, “allenare” negli Stati Uniti rappresenti un concetto più sfumato e leggermente diverso rispetto a quanto non lo faccia dalla nostra parte dell’oceano, e che le alterne fortune dei tecnici stranieri nel calcio statunitense vadano spiegate con la capacità di adattarsi ad un contesto culturale diverso, caratteristica che ovviamente differisce di persona in persona. Non c’è un solo assistente allenatore, ma ce ne sono tanti e la divisione delle carriere è molto meno visibile. Il capo allenatore negli Stati Uniti ha poteri maggiori su più ampie zone dell’organizzazione ma è anche una figura che delega in maniera più consistente, è molto più un supervisore che un insegnante. Schmetzer in particolare ha dimostrato di sapersi costruire uno staff capace di trasmettere e implementare la sua visione, tanto che negli ultimi anni il suo coaching tree ha iniziato a prendere forma con la promozione a capo allenatore di due suoi ex assistenti come Ezra Hendrickson a Chicago e Gonzalo Pineda ad Atlanta. Seattle oggi può contare su tre assistenti, e sono tre nomi tra i più rispettati in giro per la lega. Preki è stato un suo compagno nei Tacoma Stars del calcio indoor, oltre ad essere un personaggio di culto nella storia del calcio statunitense, Andy Rose è stato a lungo un calciatore proprio di Seattle e pur essendo alla sua prima esperienza in uno staff viene descritto da anni come uno dei calciatori maggiormente adatti per caratteristiche ad una transizione dall’altro lato della linea laterale, mentre Freddy Juarez è un capo allenatore di successo che nel bel mezzo di una stagione positiva con Real Salt Lake – nel pieno della lotta per i playoff – ha deciso di retrocedere di grado pur di uscire da una situazione complessa, con una franchigia messa in vendita da più di un anno da un proprietario con un passato di uscite razziste e comportamenti abusivi.

 

Il risultato di questa strutturazione differente e del modo in cui questa sublima le capacità manageriali di Schmetzer è una squadra la cui cultura è molto più difficilmente scimmiottabile, fondata su pilastri che sono solo parzialmente tattici o comportamentali, pilastri invisibili all’esterno e che possiamo solo provare a percepire o a definire in maniera nebulosa, ma che permettono alla franchigia di essere multiforme nel tempo senza perdere ciò che la rende speciale. Con l’ex calciatore della NASL alla guida Seattle naviga tra schemi, principi di gioco e interpretazione delle partite diverse eppure mantiene sempre un’identità riconoscibile, che permea ad ogni livello della franchigia e che coinvolge veramente ogni persona all’interno dell’organizzazione. Come nella NBA Gregg Popovich è passato dalle Torri Gemelle Duncan-Robinson e al riempire l’area alle spaziature perfette e alla ricerca dell’extra pass, in questi anni Schmetzer ha vinto MLS Cup giocando un calcio esclusivamente speculativo, addirittura rifiutando qualsivoglia di sortita offensiva nella finale del 2016 vinta ai rigori contro Toronto, ha costruito una delle migliori squadre della Western Conference lo scorso anno pur con l’infermeria piena per tutta la stagione affidandosi alla mai prima sperimentata difesa a tre e si è guadagnato la finale di CONCACAF Champions League giocando sexy soccer, riempiendo la squadra con sei giocatori prettamente offensivi e versatili. Tutto questo però non può succedere senza un player recruitement di alto livello e che sia fondato su una conoscenza minuziosa dei meccanismi di costruzione del roster che caratterizzano la lega e che ne influenzano il prodotto sul campo. Cercando di definire il “blueprint” di questi Sounders, ciò che li renda un’organizzazione così vincente nel lungo termine, Matt Doyle di mlssoccer.com ha spiegato approfonditamente cosa voglia dire per una franchigia essere in grado di spendere una parte consistente del proprio budget su alcune posizioni chiave così da sfruttare al massimo il complesso salary cap della MLS.

 

Se i Seattle Sounders sono diventati in questi anni il simbolo di una franchigia sempre competitiva è perché hanno mostrato di avere le idee chiare su cosa serva alla squadra ma anche una tendenza a rinnovare quasi costantemente la squadra, arrivando in una situazione di porte girevoli in cui alla fine chiunque arrivi sa esattamente cosa deve fare, come comportarsi e in che tipo di sistema deve andare ad inserirsi. Il proprietario di maggioranza Adrian Hanauer – che fino al 2015 era anche GM della franchigia – il General Manager Garth Lagerwey – che a Salt Lake City aveva costruito una delle squadre più forti della lega pur con un budget non gigantesco e in un mercato di dimensioni ridotte – e il direttore sportivo Craig Waibel – che in una prima fase aveva preso il posto di Lagerwey a RSL – sono tutte persone che potrebbero parlarvi di argomenti come il terzino sinistro di riserva di FC Cincinnati o la cosiddetta GAMflation – l’afflusso estremo di Allocation Money che sta facendo alzare sensibilmente i prezzi delle trade intra-lega – senza interruzioni per una mezza giornata buona, conoscono la MLS e le sue regole come se Arianna avesse donato loro un filo al momento del loro ingresso nel front office della franchigia. Forse però l’esempio più fulgido del metodo Seattle è l’unico figlio prediletto uscito dall’ovile, quel Chris Henderson che – con la prima decisione intelligente presa da Beckham e soci dal loro sbarco in MLS – è diventato direttore sportivo di Inter Miami. Nella scorsa off-season Henderson, praticamente un’intelligenza artificiale a cui hanno fatto imparare a memoria il Grande Libro del Cap – qualora esista un libro del genere – ha preso uno dei roster più disfunzionali e costosi della lega e, dovendo pure sottostare alla spada di Damocle della punizione più severa mai riservata ad una franchigia, è stato in grado di trasformarlo in una squadra molto meno costosa ma decisamente più competitiva, trovando valore in veterani sottovalutati – Mo Adams, DeAndre Yedlin – e in giovani promesse pronte al salto di qualità – Leonardo Campana, Bryce Duke – portando una parte consistente di Sounders Culture a South Beach.

 

Ma la vittoria dei Seattle Sounders non è solo una questione di una grande organizzazione – anche se, come continueremo a vedere più avanti, rimane testa e spalle per sostenibilità sul lungo periodo sopra a tutte le altre – quanto piuttosto il segno della buona strada intrapresa dalla MLS in questi anni, una strada che, a detta di molti proprietari arrivati negli ultimi anni e dello stesso Hanauer, dovrebbe essere percorsa con ancora maggiore ambizione e spingendo con più sicurezza sull’acceleratore. Quando undici anni fa Real Salt Lake arrivò in finale di CONCACAF Champions League contro il Monterrey, al ventesimo del primo tempo della partita d’andata, sul risultato di 1-0 per i messicani padroni di casa, i Rayados sostituirono due titolari con l’intenzione di averli riposati per la partita di campionato nel fine settimana, e non avrebbero preso sul serio l’incontro fino al match di ritorno, dopo gli statunitensi riuscirono a strappare un pareggio per 2-2 – proprio come i Sounders – ai giganti continentali. Quello che, a detta dello stesso Lagerwey, GM della franchigia, era uno scontro tra “Davide e Golia” non divenne meno tale solo perché al ritorno il Monterrey trovò il modo di alzare il trofeo solo con uno striminzito 1-0. Per quanto fallibili possano essere considerate le valutazioni di Transfermarkt, quel Monterrey aveva un valore complessivo quasi quattro volte superiore a quello di una squadra, Real Salt Lake, che pagava tutto il suo roster poco più di tre milioni e mezzo di dollari, una cifra paragonabile a quella del monte salari più basso della nostra Serie B. Oggi quel gap si è sensibilmente accorciato e andando a comparare i monti stipendi delle due leghe potrebbe essere perdonato chi scambiasse l’una per l’altra, e per quanto, come diceva Johan Cruijff, “non ho mai visto un sacco di dollari segnare un gol” sembra esserci una diretta correlazione tra l’investimento sui roster e i risultati sul campo. Da quando è stato introdotto il meccanismo dell’Allocation Money, nel 2015, la MLS ha vinto dieci delle trenta serie andata e ritorno contro squadre messicane in CONCACAF Champions League – il percorso verso la finale 2020 di LAFC, in un’edizione accorciata dalla pandemia, viene dunque esclusa dal conto. Nelle precedenti ventiquattro, le franchigie MLS avevano vinto appena due volte. Questo gap non può dirsi ancora completamente chiuso però, ed è per questo che in molti all’interno della lega cercano di spingere per permettere alle franchigie di investire di più. Per quanto il monte salari di molte franchigie MLS sia ormai comparabile non solo con la Liga MX ma anche con alcune delle partecipanti alle cinque principali leghe europee, ciò che ancora tiene lontana la lega da quei livelli è l’allocazione di quel consistente budget salariale. Le regole del cap costringono le franchigie a spendere oltre metà di quel budget su soli tre giocatori e in generale, anche nelle squadre che meno sfruttano i Designated Player, a investire maggiormente in una parte ristretta del roster, nonostante regole come l’Allocation Money e la Under 22 Initiative abbiano aumentato la quantità di posizioni che possono ambire a stipendi e a trasferimenti a sette cifre. Le squadre di Liga MX – e quelle europee, ovviamente – non dovendo avere a che fare con queste limitazioni, possono puntare molto di più sulla profondità, e questo garantisce ancora loro di partire da favorite in molti degli scontri tra le due leghe.

 

Proprio questi Seattle Sounders sono forse l’esempio più lampante di quanto queste regole abbiano aiutato la lega a crescere ma possibilmente anche quanto abbiano bisogno di essere aggiornate, o comunque ammorbidite. Seattle rappresenta il perfezionamento di cosa si possa fare a livello di roster building con questo tipo di salary cap, cosa succede se tutto quanto va nella direzione giusta, e i loro successi sono testimonianza della crescita della lega tanto quanto i loro limiti sono l’esemplificazione di quanto la MLS non stia crescendo abbastanza. Nella rosa di questi Sounders si possono contare due nazionali statunitensi, uno dei quali, Jordan Morris, con una stagione da candidato MVP pur non essendo Designated Player, il calciatore più significativo ad essersi mai trasferito utilizzando la free agency MLS – Albert Rusnak – altri due DP che sono entrambi tra i migliori della lega nei loro ruoli, due ex DP con carriere importanti all’estero e rimasti pure con stipendi inferiori pur tenendo un livello di produzione ancora molto consistente, uno dei migliori difensori dell’ultima Coppa d’Africa, uno dei portieri più forti nella storia della MLS nonché autore della parata più iconica nella storia della lega, un altro paio di giocatori che potrebbero partecipare ai prossimi mondiali in Qatar e un impatto sempre maggiore dagli homegrown cresciuti in un settore giovanile capace di vincere le ultime due edizioni della Generation Adidas Cup a livello under 17 – in particolare l’alaskano Obed Vargas, che a sedici anni è entrato in una finale di Champions e ha giocato una partita impeccabile, con la stessa calma da veterano che ha mostrato in questa prima fase di quella che sembra essere la sua breakout season. Anche andando ad escludere, per amore di brevità, la miriade di veterani MLS e calciatori non propriamente valorizzati altrove che sono arrivati in questa squadra per dare profondità e hanno giocato fin dal primo minuto come se non avessero fatto altro tutta la carriera – tra questi Kelyn Rowe, un altro figlio del Puget Sound – in questa lista possiamo leggere una quantità di riconoscimenti e una tangibile rilevanza anche ben oltre la comfort zone del Pacific Northwest che mai si era vista spalmata su ogni livello di una franchigia MLS, e se i picchi non saranno comparabili con quelli di certe stelle viste nel corso degli anni in questa parte di mondo, il commitment di Ruidiaz e il suo essere parte integrale della cultura di questa squadra lo rendono già solo così, senza neanche andare a guardare al – notevole – impatto sul campo, più utile e fondamentale all’interno di un’organizzazione di successo di una vecchia gloria interessata quasi solo ed esclusivamente ad un ultimo grosso contratto. In poche parole: non è possibile, con le attuali regole salariali MLS, immaginare di poter sostituire qualsiasi elemento di questa squadra con un upgrade senza allo stesso tempo essere costretti a perdere qualcosa di importante in qualche altra zona dell’organico. È la naturale situazione di una squadra vincente all’interno del sistema sportivo statunitense, direte voi, e in parte avreste ragione. Ma ciò che differenzia la MLS dal resto delle leghe professionistiche statunitensi è che, ovviamente, non rappresenta il picco del proprio sport. Aumentare il cap in una lega come la MLS non vuol dire semplicemente dover dividere più soldi tra gli stessi giocatori, ma permettere alle squadre più ambiziose di andare alla caccia di obiettivi che al momento non sono raggiungibili, o anche provare a trattenere giocatori che raggiunto un certo livello diventano troppo grandi per la lega stessa. E la particolarità della Major League Soccer è che, pur avendo le franchigie un monte salari contenuto, ha alcuni tra i proprietari più ricchi del panorama calcistico mondiale. In questi anni la lega ha sempre privilegiato una crescita contenuta, così da non ricadere nell’errore primordiale della NASL, incapace di creare un sistema sostenibile intorno ai Pelé, Beckenbauer e ai Cruijff che riusciva ad attrarre, ma deve poter esserci una via di mezzo tra le spese pazze ingiustificate e il cap più complesso e restrittivo del professionismo statunitense.

 

Questa edizione della Champions League era stata vista fin da subito come una delle migliori occasioni da parte della MLS di rompere la maledizione, e non solo visto il record sempre in miglioramento contro le squadre messicane in competizioni internazionali. L’assenza delle potenze tradizionali della competizione e delle big più riconoscibili della Liga MX aveva fatto passare l’idea di un campo messicano più “debole” del solito – anche se poi, insomma, se queste squadre si sono qualificate e le altre no ci sarà pure una ragione. Ma neanche nelle migliori delle aspettative si poteva immaginare una versione così dominante di Seattle, che ha attraversato l’intero torneo con le stimmate della super favorita, eliminando ai quarti di finale proprio quel Leon che li aveva sconfitti nella finale della Leagues Cup 2021, e disputando non una ma due partite in territorio messicano – contro il Leon e nella finale d’andata contro il Pumas – da squadra sempre in controllo, mettendo in mostra quella sicurezza nei propri mezzi e quel senso d’ineluttabilità che in questa competizione era sempre stato presente dal lato delle messicane durante le loro trasferte a nord del confine. In quattro partite casalinghe i Sounders hanno segnato dodici reti e ne hanno concessa una sola, contro New York City, in una situazione in cui comunque si trovavano con tre gol di vantaggio nel doppio scontro diretto. Eppure in un annata “normale” non avrebbero neanche dovuto avere la possibilità di giocarsi questo torneo. Seattle è entrata infatti nel tabellone come miglior piazzata nella regular season MLS tra quelle non già qualificate al torneo – avendo terminato al terzo posto nel Supporters’ Shield – e lo ha fatto solamente perché nel 2021, per il secondo e ultimo anno consecutivo, la US Open Cup è stata cancellata. E forse è proprio questo il più grande testamento della grandezza di questa dynasty, dell’eccellenza continuata mostrata dall’organizzazione nel corso degli anni, di quanto siano rispettati e anche temuti non solo in MLS ma in tutta la zona CONCACAF. La loro eliminazione dai playoff 2021 per mano di Real Salt Lake – che ha giocato ai castelli di sabbia rifiutandosi completamente di attaccare e non totalizzando neanche un tiro durante i novanta minuti – è stata una delle più comiche e strambe nella storia della MLS, e c’è una considerazione assolutamente legittima secondo cui quel posto riservato a loro sarebbe dovuto andare ai loro rivali storici, i Portland Timbers, sconfitti da NYCFC in finale di MLS Cup – e in fin dei conti il Messico assegna i suoi slot per la Champions League ai due vincitori e ai due sconfitti delle finali di Apertura e Clausura, a meno di sovrapposizioni. Ma laddove fin troppe franchigie MLS nel corso degli anni sono partite sconfitte, hanno preventivamente mollato ogni ambizione di controllo sulla partita e sul doppio confronto, i Sounders hanno imposto a qualsiasi avversaria la loro visione, hanno dominato emozionalmente le partite e hanno saputo scegliere i momenti in cui fare la differenza, e la fortuna necessaria per trionfare in competizioni decise da margini così ristretti ha saputo riconoscere questa loro abilità, premiandoli di conseguenza. Nell’andata dei quarti di finale, due franchigie avevano fatto l’impresa casalinga di vincere 3-0 contro compagini messicane, Seattle contro il Leon e New England contro il Pumas. Laddove però i Revolution di Bruce Arena, pure reduce da una campagna da record nella regular season MLS della stagione precedente, si sono presentati a Città del Messico con una squadra spaventata, dedita esclusivamente al ridurre i danni e al chiudersi dietro senza avere né gli uomini né l’abitudine per riuscirci, rinnegando completamente le proprie caratteristiche per paura di una rimonta, Seattle non avrebbe potuto avere un approccio più differente. E infatti i risultati avrebbero espresso questa differenza, con i Revolution sconfitti ai rigori in una partita che puzzava di psicodramma da almeno un paio di giorni prima e i Sounders capaci di andare addirittura in vantaggio al Nou Camp e di venire raggiunti con uno dei soli quattro gol subiti in tutta la competizione solamente al novantunesimo minuto.

 

Anche in uno sport come il calcio che ha moltiplicato il numero di trofei che una squadra può alzare ogni anno, la vittoria si gioca ancora su margini infinitesimali ed è un privilegio, una rarità, non un qualcosa che puoi mai aspettarti come dono ogni anno, al di là di quanto alcuni sistemi più che altri permettano a certe squadre di accumulare una superiorità sconvolgente nei confronti delle rivali. E c’è troppo talento, troppa eccezionalità, troppe scuole di pensiero perché tutti possano godere di questo privilegio almeno una volta ogni anno. Per questo dovremmo evitare la tendenza ad analizzare e a valutare il calcio, e lo sport in generale, esclusivamente ex post, dopo che tutto è avvenuto, dopo che la coppa è stata alzata. Perché vincere è solo una parte infinitesimale del processo. Chi vince ha sempre ragione, ma questo non vuol dire che chi perda sia per forza di cose dalla parte del torto. Ci sono più sconfitte che vittorie nei momenti più importanti dell’era Brian Schmetzer a Seattle. Ci sono due sconfitte nella MLS Cup, due brutte eliminazioni nei playoff della Western Conference, tante sonore ripassate subite in Champions League. Da altre parti si sarebbe già arrivata alla fase delle cordiali strette di mano d’addio, e in effetti questi stessi Sounders sono sembrati incredibilmente vicini ad arrivarci dopo la MLS Cup persa nel 2020, quando Schmetzer è entrato nella off-season senza un contratto che lo avrebbe vincolato per la stagione successiva. Ma evidentemente in questi anni è stato costruito qualcosa di più profondo e più importante, qualcosa di solido e tangibile. C’è una cultura che aere perennius si erge più imponente di qualsiasi trofeo, perché senza di essa non sarebbe possibile mostrare queste ambizioni, non sarebbe possibile presentarsi in un torneo come invitata di ripiego e vincerlo come se non ci potesse essere un’altra soluzione. Come potrete immaginare, questo pezzo è nato prima della vittoria di questa notte. Non nasce per documentare il trionfo dei Sounders, bensì usa la finale conquistata come pretesto per raccontare una dynasty che ha definito un’epoca della MLS. Non posso nascondere che dopo il 2-2 conquistato all’andata in Messico l’impressione che stesse “per succedere una cosa” (cit.) fosse prevalente sulla scaramanzia che era già pronta ad immaginare i nuovi e fantastici modi in cui una franchigia MLS potesse fregarsi da sola in campo internazionale – l’indizio, tra l’altro, era arrivato nei primi trenta minuti della partita di ritorno, con gli infortuni che hanno escluso dalla partita Nouhou e Joao Paulo. Ma comunque questo pezzo esisterebbe anche se la trasferta all’Estadio Universitario non fosse stata così soddisfacente e così benaugurante per il ritorno casalingo, in un’atmosfera mai vista in questa competizione. Sì, certo, la finale al Lumen Field era, come da campagna social dei Sounders e come da testimonianza di MarShawn Lynch, “a big f’in deal”, ma forse il “biggest f’in deal” era, tra tutti, l’eccezionalità di ciò che i Seattle Sounders hanno saputo costruire. Un qualcosa che, non solo per longevità ma anche per come incrocia le storie personali di alcuni dei suoi elementi più importanti e per la tradizione all’interno di cui si va ad inserire, non può non essere considerata come una dynasty.

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