Nella cattedrale del soccer statunitense, New York City si proclama regina
Prima ancora che le partite della post-season, l’argomento di discussione principale durante questi playoff MLS è stato il valore stesso da assegnare a questo tipo di competizione. In parte per la naturale insicurezza che sembra accompagnare molti appassionati statunitensi nell’accettare lo sviluppo di tradizioni proprie e uniche all’interno di quello che è lo sport più popolare del mondo, in parte perché chi segue il calcio è storicamente abituato a vedere assegnato il titolo di campione nazionale in una maniera decisamente differente rispetto a come si fa in MLS e in parte anche per colpe della lega stessa, la cui strutturazione della post-season sembra potenzialmente modificabile in favore di un sistema che premi maggiormente l’eccellenza in regular season, si è colta l’occasione per dare origine all’ennesima discussione su cosa sia il merito sportivo che non ha un contributo interessante che non siano parole ripetute uguale identiche per anni dalle stesse persone all’incirca dal 1983. L’idea sarebbe che non si può assegnare un titolo nazionale per un’intera stagione sulla base di quattro partite giocate tra novembre e dicembre, che non è così che si comportano le nazioni calcistiche serie. Ma è un’idea che evidentemente fa buchi da tutte le parti e che si basa solamente sul fatto che alcune nazioni particolarmente ricche e potenti e non necessariamente per meriti sportivi nel calcio mondiale decidono di adottare un metodo diverso dalla MLS per premiare il proprio campione e che queste vengano viste come l’unico modello possibile pur essendo il calcio pieno di campionati che assegnano i trofei sulla base dei regolamenti più vari. E in effetti, le stesse persone che trovano assurdo che quattro partite possano decidere il valore di una stagione non sembrano avere alcun problema con la FIFA che ha deciso, novant’anni or sono, di assegnare per quattro anni il titolo di miglior nazionale del mondo sulla base di partite ad eliminazione diretta, sui cui bivi possono andare a schiantarsi, o al contrario alzarsi in volo, interi movimenti nazionali e sui cui risultati vengono prese decisioni che impattano decenni interi di lavoro da parte di un incalcolabile numero di persone. Ma mi fermerò qui, perché non è mio compito convincermi che la mia visione delle cose sia indiscutibilmente la migliore, e poi perché non è questo veramente la ragione per cui siamo qui oggi. Quello che mi interessa sottolineare è che queste discussioni, che si ripetono ugualmente da anni ma che quest’anno forse più degli altri sembravano aver raccolto una qual certa popolarità, si sono fermate nel momento stesso in cui è stato dato il fischio d’inizio per la finale della MLS Cup tra Portland Timbers e New York City FC, e non hanno più avuto modo di riprendere. In parte perché lo spettacolo è stato tale e ha assolutamente reso onore al calibro della serata, e in parte anche perché, come sempre quando si parla di MLS Cup, una volta che il sipario è calato e che il vincitore è stato annunciato, è risultato veramente difficile, se non impossibile, provare a sostenere seriamente che il trionfo non fosse, alla fin fine, meritato.
Ma fermiamoci un attimo a respirare e non facciamoci prendere troppo dalla fretta. Partiamo dal luogo, che ha giocato un ruolo cruciale nel far percepire a tutti quanti questa finale come un evento veramente speciale. Il Providence Park di Portland, Oregon, è il miglior stadio di calcio ci sia negli Stati Uniti, è forse il singolo patrimonio culturale più prezioso che il soccer possa vantare, è un luogo storico eppure estremamente all’avanguardia, in cui si può respirare la storia percependo allo stesso tempo la scrittura delle sue nuove pagine. In parte per lo stile particolare eredità delle scelte architettoniche di chi, quasi cento anni fa, volle farne un campo d’atletica e poi nel corso degli anni lo ristrutturò per permettergli di ospitare cricket, football americano, baseball e infine, al giorno d’oggi, solo ed esclusivamente calcio, in parte per l’atmosfera incredibile creata da coloro che ci stanno dentro, soprattutto la rumorosissima e coloratissima Timbers Army, Providence Park ha una personalità debordante, e il fatto che finalmente la MLS sia arrivata a giocarsi la partita più importante dell’anno all’interno di quelle mura è una vittoria incredibile per la lega stessa – soprattutto nel momento in cui l’alternativa era giocarla in quello che è invece il peggiore stadio per il calcio in MLS, sia pure esso un tempio del baseball come lo Yankee Stadium. Non c’è mai stata neanche per un momento la possibilità che qualcuno, collegandosi sulla diretta della partita, potesse pensare che non fosse l’evento più importante della stagione, nonostante il trattamento ricevuto da ABC non abbia proprio fatto onore al momento, con il calcio d’inizio ritardato di dieci minuti causa overtime nel match di college basket andato in onda precedentemente.
Ma se lo show fosse stato solamente sugli spalti o se il merito fosse stato esclusivamente della struttura, allora non sarebbe certo il caso di parlare con toni entusiastici di questa finale e verrebbe difficile pensare che tutte le polemiche di cui sopra si sarebbero dileguate in maniera così rapida e significativa. Quella tra New York City e Portland Timbers è stata una grande partita tra due grandi squadre e nobilitata da giocatori di talento decisamente superiore alla media di questa lega, alcuni dei quali sarebbe difficile non immaginare per almeno dieci anni protagonisti in alcuni dei maggiori campionati europei. Entrambe le squadre sono scese in campo con uno schema speculare, un 4-2-3-1 con due quartetti offensivi composti interamente da giocatori sudamericani, e con un fantasista argentino nei propri trenta alla guida. Dalla parte dei padroni di casa Sebastian Blanco ritornava in tempo di record dopo il brutto infortunio subito inizialmente contro Minnesota United e poi peggiorato fino all’indisponibilità nella partita contro i Colorado Rapids, con ai lati la coppia colombiana formata da Chara (Yimmy) e da Dairon Asprilla dietro al cileno Felipe Mora. Per i newyorchesi invece c’era Maxi Moralez, ma per il resto l’età media era decisamente più bassa rispetto a quella dei rivali, con un classe 1997 come il paraguayano Medina, il classe 2000 Santi Rodriguez e il classe 1998 Valentin Castellanos, capocannoniere non solo della squadra ma anche Scarpa d’Oro di questa stagione MLS. Le similitudini tra le due squadre però si fermavano esclusivamente alla conformazione offensiva e allo schieramento dei propri giocatori in campo, visto che la partita ha mostrato due squadre che agiscono sulla base di compiti e principi estremamente differenti. Gli ospiti, come da indicazioni ben precise provenienti dalla casa madre del City Football Group in quel di Manchester, gioca un calcio di possesso che ama disorganizzare le squadre avversarie e recuperare il pallone alto utilizzando il pressing, e può contare su reticoli complessi e precisamente codificati in fase di costruzione del gioco offensivo. Come vedremo, il tecnico norvegese Ronny Deila ha avuto il modo di inserire alcuni suoi principi di gioco all’interno del sistema ereditato dall’ex assistente di Pep Guardiola Domenec Torrent, ma il blueprint ovviamente non può non essere quello che viene da Manchester. Dall’altra parte Giovanni Savarese poteva contare sulla fama, proveniente fin dai tempi dei moderni New York Cosmos nell’ormai defunta NASL 2.0, di mago delle partite secche, di abilissimo preparatore di sfide singole ad eliminazione diretta, su un trasformismo che più di una volta gli ha permesso di adattarsi completamente al piano di gioco più conveniente per la sua squadra – basti pensare a questa post-season in cui prima ha fatto sfogare i Rapids per poi controllarli sul lungo periodo e poi alla strategia del tutto opposta contro Real Salt Lake, attaccati da subito con forza e costanza così da costringerli a venire fuori e a proporre loro qualcosa offensivamente senza sperare necessariamente nel contropiede risolutore – oltre che su un gioco di base molto più attendista inteso a sfruttare le abilità in transizione di alcuni dei suoi elementi principali.
Le arti magiche di Savarese comunque, almeno nei novanta minuti, gli unici della partita in cui abbia senso discutere di temi prettamente tattici, non sembrano funzionare, e non è esattamente chiaro se sia per errori da parte del tecnico di origine italo-venezuelana nella preparazione della gara – tra questi potenzialmente il rischiare un Blanco in condizioni non perfette e capace di durare solo sessanta minuti lasciando in panchina un Santiago Moreno che volava sulle ali dell’eccellente partita giocata contro Real Salt Lake – o per meriti della sua controparte norvegese, la cui squadra è fin dal primo minuto dominante. In fase di pressing sono in grado di costringere sistematicamente i Timbers a gettare via la palla prima di superare la metà campo e in attacco riescono a controllare la situazione, pur non essendo comunque troppo pericolosi. La migliore occasione arriva quando Alfredo Morales è eccellente nel togliere ogni rifornimento a George Fochive scippandogli il pallone con un anticipo da dietro e poi bravo nell’incunearsi in area, dove il suo bel passaggio per Taty Castellanos non riesce a diventare una conclusione efficiente da parte dell’argentino. I Timbers soffrono e riescono veramente a creare qualcosa solamente quando, causa un leggero rallentamento del pressing newyorchese, che non sempre parte in massa in seguito al trigger del passaggio all’indietro verso il portiere, Larrys Mabiala è in grado di trovare uno dei suoi lanci lunghi e precisi per Felipe Mora. Nel primo tempo l’unico spiraglio temporale di brillantezza dei Timbers arriva proprio grazie ad un paio di questi lanci intorno al ventiquattresimo minuto, come se la squadra si fosse svegliata apposta per partecipare a suo modo alle proteste della Timbers Army in solidarietà a Sinead Farrelly e Meleana Shim, le due calciatrici che hanno denunciato per molestie sessuali Paul Riley ai tempi della sua gestione delle Portland Thorns, caso su cui la dirigenza comune alle due franchigie dell’Oregon è stata tutt’altro che chiara, e dalla cui combinazione dei numeri indossati in maglia Thorns viene il minuto in cui inizia la protesta della curva del Providence Park.
Si tratterà comunque solo di una fiammata, anche perché New York City sfodera una prestazione difensivamente eccezionale. Nel primo tempo brilla al massimo del suo potenziale la stella di James Sands. L’homegrown newyorchese classe 2000, che sembra essere pronto per l’Europa almeno da una stagione buona ma che non sembra essere notato come altri prospetti della franchigia prima di lui – vedi Gio Reyna e Joe Scally – gioca come centrocampista difensivo e dimostra una capacità sovrumana nel difendere lo spazio dietro di lui, ponendosi di fatto quasi come un terzo centrale che però interviene sempre alle spalle dell’attaccante avversario. Nella prima frazione di gioco è fondamentale nell’impedire in due situazioni estremamente complesse che con altri giocatori sarebbero diventati calci di rigore a Dairon Asprilla, che da quelle parti chiamano Mr October per quanto sa diventare decisivo quando il pallone scotta di più, prima un tiro comodo da una buona posizione in area e poi una ricezione importante all’altezza del dischetto del rigore. Come al solito un giocatore di grande intelligenza e posizionamento, sarebbe veramente sorprendente se questa non risultasse alla fine essere la sua ultima partita con la maglia dei Pigeons. La partita ritorna presto sotto il controllo di New York City e della sua qualità tecnica superiore agli avversari. Particolarmente importante in questo periodo di gara il controllo espresso sulla partita da Jesus Medina. Il DP dei newyorchesi in particolare riesce a combinarsi in maniera molto efficace con Maxi Moralez. I due negli ultimi venti minuti di primo tempo dialogano tra di loro come amanti che si parlano al telefono, e si scambiano posizione continuamente, come muovendosi sul filo arricciato della cornetta, in un movimento che sembra far perdere le coordinate spaziali alla difesa di Portland. E visto che la loro azione si svolge principalmente sulla fascia di responsabilità di Claudio Nicolas Bravo, non sarebbe assurdo immaginare – anche se la mia è solamente un’illazione – che le loro continue giravolte abbiano disorientato il difensore argentino in maniera tale da portarlo, intorno al quarantesimo minuto, a perdersi su un calcio di punizione spiovente il pericolo pubblico numero uno, il capocannoniere della MLS 2021 Taty Castellanos, che trova così la via della rete sfruttando anche uno Steve Clark certo non impeccabile ma sicuramente messo in una situazione difficoltosa dal campo sintetico, dalla pioggia e dal momento in cui il pallone incontra il suolo – anche se, bisogna dirlo, forse la scelta che sembra essere causata maggiormente dal disorientamento è quella di chi ha assegnato a Bravo la marcatura di Castellanos in primo luogo, vista l’abilità non certo esaltante nel gioco aereo dell’ex Banfield. Tornato subito titolare dopo l’espulsione nel finale della partita contro i New England Revolution che gli è costata la finale di Conference, Taty ha dimostrato di essere un uomo in missione – che era come lo definivo nella preview di questi playoff, ma senza volermi prendere meriti che non ho, anche perché era abbastanza evidente a tutti – e si è preso la scena con un gol fondamentale e che, come vedremo, è sembrato decisivo fino all’ultimo secondo. Da notare, in conclusione di primo tempo, come l’uomo che ha tirato la sua lattina di birra addosso a Jesus Medina durante l’esultanza di New York per il gol del vantaggio, è stato non solo cacciato via a vita dal Providence Park, ma è stato in primo luogo smascherato dai suoi stessi compagni di posto.
Nel secondo tempo la musica non cambia. Un po’ di spazi si aprono per Portland ma sono sempre gli ospiti a tirare le fila del gioco e addirittura si prendono la responsabilità di costruire molto alti, con praticamente una prateria grande quanto una metà campo tra Sean Johnson e la sua linea difensiva. Il merito per la capacità della squadra di sostenere una strutturazione del genere sta nella propria coppia centrale. Quella formata da Maxime Chanot e Alexander Callens è non solo una delle più solide in MLS, ma sembra fatta da giocatori capaci di completarsi a vicenda se non a livello di caratteristiche quantomeno perché laddove uno sbagli è sempre l’altro a metterci una pezza puntuale e a evitare il peggio. Nel secondo tempo accade esattamente due volte, ed è prima Callens a risolvere sul pasticcio di Chanot e poi il lussemburghese a fermare l’azione partita dall’errore del peruviano. New York non smette di proporsi offensivamente anche grazie a due terzini che partecipano all’azione offensiva. Se Gudmundur Thorarinsson lo fa proponendosi come linea di passaggio praticamente all’incrocio tra la linea di gesso del fallo laterale e quella immaginaria della tre quarti campo, servendo subito l’underlap di Rodriguez o del trequartista Maxi Moralez o della mezzala di sinistra Alfredo Morales, dall’altra parte Tayvon Gray lo fa lanciandosi sempre in avanti e arrivando spesso fino al fondo estremo del campo per poi tentare la via del cross. La costanza dei risultati è ancora da migliorare, ma l’inizio dell’esplosione del primo nativo del Bronx cresciuto nel vivaio di NYCFC è stata una delle più belle sorprese dell’anno, anche se nasce dall’infortunio grave che ha colpito Anton Tinnerholm, che non può essere una bella notizia e non lo è comunque neanche alla luce delle ottime prestazioni del suo sostituto. Dall’altra parte, invece, Portland, chiamata a rialzarsi nel momento decisivo della stagione, è sorprendentemente inanimata. Inanimato è Giovanni Savarese, che escludendo il cambio dovuto per mancanza di autonomia al sessantesimo di Sebastian Blanco per Santiago Moreno – e col senno di poi viene da chiedersi se non fosse più giusto dare fiducia al talento colombiano, in grande crescita dopo l’ottima prestazione contro Real Salt Lake, ma adesso è veramente facile parlare – attende fino agli ultimi minuti per fare cambi, come quello di Niezgoda e di Diego Valeri, che forse sarebbe stato opportuno anticipare. Ma inanimata, o comunque per nulla precisa, è anche la squadra. I Timbers sono una macchina da contropiede essendo dotata di giocatori molto veloci e eccellenti portatori di palla progressivi, ma l’impressione è che manchino del tutto le situazioni codificate e che un minimo più di organizzazione potrebbe certo aiutare giocatori che altrimenti si ritrovano a dover decifrare in velocità situazioni di gioco molto complesse. Almeno un paio di azioni molto promettenti per i Timbers si sono arenate su situazioni di gioco improvvisate, su passaggi sbagliati ma che allo stesso tempo, in quel momento, sembravano essere anche la soluzione di gioco più logica e semplice. Portland attacca ma senza troppo costrutto fino all’ultimo minuto di recupero, quando si ritrova a dover effettuare il gesto estremo di chiamare il portiere in attacco. Steve Clark non è decisivo nella classica mischia su calcio d’angolo ma lo è quando il pallone è liberato dalla difesa newyorchese. Il portiere, di fatto ultimo uomo, arriva per primo sul pallone e lo ricicla sulla fascia destra. Dal cross, e da un paio di rimpalli – e potenzialmente anche da un fallo di Mabiala su cui il VAR avrebbe potuto/sarebbe dovuto intervenire – nasce l’occasione che Felipe Mora riesce a trasformare nel gol del pareggio, facendo esplodere uno stadio la cui miccia era stata accesa quasi due ore prima.
Come detto, fare valutazioni tattiche sui supplementari è quasi superfluo. La stanchezza, la tensione è tale che è veramente difficile vedere nei giocatori la decisione dei tempi regolamentari, nelle squadre le ambizioni di gioco che dovrebbero caratterizzare i primi novanta minuti. La cosa da sottolineare qui, perché è nel corso degli ultimi trenta minuti di gioco che smette di essere un qualcosa di eccellente e si sublima in una delle migliori prestazioni viste a questo livello, è la partita di Diego Chara. Il trentacinquenne colombiano, altra bandiera della franchigia insieme al Profe Valeri, è semplicemente un giocatore speciale, che ha segnato un’epoca pur venendo sistematicamente dimenticato e sottovalutato nelle attenzioni del pubblico statunitense – e sudamericano, perché se il fratello Yimmy viene convocato per la Copa America dalla MLS allora è inspiegabile come non ci riesca Diego – che lo ha visto una volta sola all’All-Star Game e una volta sola nel miglior undici della lega in quelle che sono ad oggi dieci stagioni consecutive giocate al livello più alto. Incontrista dai mille polmoni, in grado di recuperare cinque metri a Jesus Medina, di undici anni più giovane, intorno al novantesimo minuto di partita fermando un contropiede con quella che, per fare arrivare la partita ai rigori per come si era messa, è forse la singola giocata più importante dell’incontro, Chara è con ogni probabilità anche il centrocampista più affidabile in fase di impostazione dei Timbers, e pur non essendo necessariamente un regista dai passaggi illuminanti è sempre in grado di fare la scelta giusta – che non sempre vuol dire quella più semplice – e di servire i compagni con una costanza eccellente e una tendenza all’errore di misura praticamente inesistente. Anche se poi i rigori porteranno il trofeo lontano da Portland, il qui presente sottoscritto mantiene l’impressione che la prestazione di Chara sia stata tale che il premio di MVP della finale sarebbe comunque dovuto andare a lui, anche se da sconfitto difficilmente lo avrebbe accettato positivamente. Certo, visti come si sono decisi questi rigori è difficile non sottolineare anche il lavoro decisivo di Sean Johnson. Il portiere ex Chicago Fire, ormai un veterano non solo MLS ma anche della franchigia di cui è capitano, è stato decisivo non solo parando i primi due rigori tirati dai Timbers, quelli che gli hanno permesso di bilanciare l’unico errore dal dischetto dei Newyorchesi e regalare la vittoria alla sua squadra, ma anche proprio nel farli arrivare a giocarsi questa partita dal dischetto. Nel secondo tempo supplementare infatti, trovatosi di fronte Paredes nella migliore occasione in tutta la partita dei Timbers, Johnson ci ha messo la pezza con una parata che non sembra straordinaria o particolarmente plastica solo perché ogni suo singolo gesto nella preparazione della parata è stato semplicemente impeccabile.
La vittoria di New York City FC nella MLS Cup 2021, oltre ad averci regalato lo spogliarello da ogni-promessa-è-debito di Ronny Deila, che ha così soddisfatto il fioretto fatto all’inizio della sua avventura statunitense, e le sue splendide lacrime dopo il rigore decisivo di Alexander Callens, ci permette anche di dare un’idea precisa di cosa sia la MLS al termine della sua ventiseiesima stagione di vita. Se fuori dal campo la franchigia newyorchese è praticamente tutto ciò che la MLS non vuole essere, bloccata per responsabilità neanche loro – costruire a New York è un incubo, e lo spazio nei margini cittadini, fondamentali per una squadra che si definisca “City” nel nome, è praticamente inesistente – in una situazione di stadio tutt’altro che ideale e in un mercato cittadino che non sembra aver ancora del tutto adottato la propria squadra – e la speranza è che questo trofeo possa aiutare a far crescere la reputazione della franchigia e ad avvicinarla alle storiche e anziane istituzioni sportive locali – per quel che riguarda le questioni di campo NYCFC rappresenta esattamente il modello e il particolare equilibrio che la lega si augura per aumentare al massimo la competitività del suo prodotto. New York City FC è la franchigia in MLS con più giocatori che guadagnano sopra l’impatto salariale massimo per il singolo giocatore – 12, tra cui 10 titolari nella finale di MLS Cup – dimostrando di aver sfruttato al meglio i margini di manovra presenti all’interno delle convolute regole salariali della lega, ha uno dei migliori settori giovanili del paese ed è probabilmente la prima franchigia nella storia ad aver vinto la MLS Cup con uno o più giocatori cresciuti esclusivamente nel proprio vivaio in posizioni chiave all’interno dell’undici titolare e può contare su un sistema di scouting eccezionale – col turbo dato dai mezzi del City Football Group – che permette alla franchigia di scovare talento sottovalutato in Sudamerica e di valorizzarlo sfruttando il proprio staff e le eccellenti strutture d’allenamento della franchigia – basti pensare allo stesso Taty Castellanos, arrivato in MLS come un’ala e certamente non con questa capacità balistica – dando origine ad un cocktail che permette non solo di competere per i maggiori obiettivi nazionali ed internazionali – perché adesso c’è una CONCACAF Champions League da provare a vincere – ma anche di vendere e bene sul mercato i propri pezzi pregiati – e se Scally è andato l’anno scorso al Borussia Moenchengladbach, ci vuole veramente uno sforzo di fantasia enorme per non immaginare Castellanos e Sands nel vecchio continente da qui al febbraio prossimo.
Quella di New York City verso la vetta della MLS è stata una strada lunga e complessa, fatta di cambi di strategie, come la decisione di allontanarsi dalla reputazione di casa di riposo portata dagli acquisti di Pirlo, Lampard e Villa, ma anche di tentativi andati a vuoto, di collassamenti completi e improvvisi, arrivati spesso nelle maniere più coreograficamente spettacolari. Appena un anno fa, di questi tempi, alla fine della prima stagione sulla panchina di NYCFC di Ronny Deila, commentavamo la sconfitta nei rigori più pazzi di sempre contro Orlando City, ma quello che forse tendiamo a dimenticarci di quella partita, scioccati dai miracoli del portiere per caso Rodrigo Schlegel, è che New York City aveva gettato al vento la vittoria con una partita offensivamente derelitta, da squadra incapace di far male anche volendolo, che aveva fatto graziato e concesso un’ancora di salvezza ad una Orlando che era stata ridotta in dieci uomini dal loro continuo peccare di esuberanza. Quella era una sconfitta in pieno stile NYCFC, e per un certo momento quest’anno, il classico collasso autunnale sembrava poterli spingere addirittura fuori dai playoff, dopo un mese di settembre atroce. Poi un pareggio allo scadere contro Atlanta ha rimesso la franchigia in carreggiata, e da lì New York non si è più guardata indietro. La vittoria in MLS Cup è meritata e coronamento di un progetto lungo e che finalmente ha dato i suoi frutti, coronando così l’ennesima stagione spettacolare della MLS con una finale degna, sotto ogni aspetto, della crescente reputazione della lega.
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