Nelle Spirit la NWSL ha delle campionesse in cui specchiarsi e vedere ciò che è stata e ciò che può essere
Quando si parla di asterischi nello sport americano si intendono circostanze che sono intervenute all’interno di una stagione che hanno reso il titolo di una certa squadra più facile, o comunque meno valido rispetto agli altri titoli vinti in situazioni che potremmo dire più tradizionali, più canoniche. L’asterisco è visto come qualcosa di spregiativo, è usato per minimizzare i successi altrui, ma la realtà è che spesso, quando si parla di asterischi, si sottintende l’intervento cataclismatico di un qualcosa – storicamente il lockout, più recentemente la pandemia – che ha reso l’intera annata incredibilmente più difficile da affrontare per tutti, inserendo un numero di variabili a cui nessuno è pronto ad adattarsi ma che andranno per forza di cose superate se si vuole coltivare ambizioni da titolo. Per certi versi, e non mancano le persone pronte a sostenerlo, le stagioni con l’asterisco sono quelle più difficili, e i cui trionfatori dovrebbero essere apprezzati giusto quel poco di più rispetto a chi vince in condizioni “normali”. E in questo senso, la stagione 2021 della NWSL potrebbe essere stata la più difficile per distacco, con l’asterisco in questo caso portato dalla diffusione in maniera epidemica di violenze e abusi nei confronti delle calciatrici che ha evidenziato il fallimento della lega nel gestire la sicurezza delle proprie atlete e che ha portato a quattro allenatori licenziati, ad una GM lasciata andare e ad una commissioner, Lisa Baird, dimessasi dopo lo scoppio del più rilevante tra i casi in questione, l’articolo di The Athletic che dettagliava gli anni di abusi, anche sessuali, di Paul Riley nei confronti delle sue calciatrici, con un particolare focus sui suoi anni a Portland grazie alle denunce di Meleana Shim e di Sinead Farrelly.
Nel bel mezzo di questo tornado che ha investito tutte le calciatrici e tutte le franchigie, e che ha richiesto la presenza forte di un’associazione giocatrici solida e strutturata come la NWSLPA per riuscire a vedere la luce in fondo al tunnel, si può certamente sostenere che il gruppo squadra maggiormente colpito da questa vicenda, quello per cui l’asterisco dovrebbe essere scritto più in grassetto rispetto a tutte le altre squadre, sia stato quello delle Washington Spirit. Non solo sono state le prime ad entrare nella bufera in seguito all’articolo di Molly Hensley-Clancy del Washington Post che, basandosi sul racconto di Kaiya McCullough e di altre atlete rimaste inizialmente anonime tra cui la canadese Jenna Hellstrom, che ha da poco raccontato la sua storia a TSN, raccontava la cultura di squadra messa in piedi da Richie Burke, basata su insulti e comportamenti abusivi, ma sono poi rimaste nel bel mezzo dell’occhio del ciclone considerato che la querelle riguardante la proprietà della franchigia. Il proprietario Steve Baldwin infatti, nonostante le sue responsabilità nell’abilitare e tollerare i comportamenti di Burke si rifiuta di vendere le sue quote all’investitrice di minoranza Michele Kang che pure sarebbe la scelta preferita di tifoseria e calciatrici e sopratutto ha presentato un’offerta che valuterebbe il club tre volte più di quanto sia il consenso generale intorno ad una franchigia NWSL, in una questione irrisolta che si è trascinata come vedremo fino all’ultima partita della stagione 2021 delle Spirit e che sembra ancora molto lontana dalla conclusione. Nel bel mezzo di questa confusione, sottoposte a sfide peculiari e che poche squadre – ma verrebbe da dire nessuna – hanno mai dovuto affrontare nella loro storia, con un roster fatto in gran parte da calciatrici giovani molte delle quali alla loro prima esperienza nel professionismo, le Spirit sono non solo riuscite a qualificarsi ai playoff, non solo sono arrivate alla finale del NWSL Championship contro le Chicago Red Stars, ma sono addirittura arrivate a conquistare il trofeo, a riportare la vittoria del principale campionato femminile statunitense nel Distretto per la prima volta dal 2003, in quella che era allora la WUSA vinta dalle Washington Freedom. Nel nuovissimo Lynn Family Stadium di Louisville, Kentucky, la squadra allenata dall’ex assistente Kris Ward, a cui la franchigia non ha voluto neanche assegnare il titolo ufficiale di tecnico ad interim, Washington ha sconfitto, ai tempi supplementari, le Chicago Red Stars di Rory Dames, già dal lato sbagliato della premiazione nell’ultima finale giocata dalla lega nel 2019, mettendo in mostra alcune stelle di prima grandezza che potrebbero presto prendersi anche lo USWNT.
Al fischio di inizio, nella prima finale NWSL senza neanche un primo o un secondo seed della regular season, le Chicago Red Stars, quarte dopo la stagione regolare, scendono in campo con un 4-1-4-1 che deve sopportare alcune assenze importanti come quelle di Kealia Watt e Julie Ertz, ma ben presto gli infortuni impatteranno non solo l’undici di partenza, ma anche i cambi di Rory Dames. Al tredicesimo l’infortunio di DiBernardo spinge il tecnico ad inserire Doniak, portando subito ad un cambio di sistema per la squadra. Se infatti in fase di non possesso Johnson – unica attaccante nella formazione titolare – scende sulla linea delle centrocampiste, in fase di possesso Johnson e Doniak giocano chiaramente sulla stessa linea formando una coppia d’attacco che si alterna nei movimenti, con l’una e l’altra che si alternano rispettivamente nel rimanere più indietro a sostenere la manovra e nell’attaccare la profondità. Washington invece mantiene il 4-2-3-1 che ha caratterizzato gran parte della sua stagione, ma è un modulo che incoraggia la fluidità in fase offensiva. In attacco non sono solamente le esterne che si scambiano di posizione come spesso vediamo, ma sono tutte e quattro le giocatrici offensive che si muovono liberamente lungo tutto l’arco d’attacco con Trinity Rodman, nominalmente l’ala destra, spesso vista sia a sinistra che al posto di Ashley Hatch come punta e Ashley Sanchez, posizione trequartista, vista anche occupare lo slot sulla fascia destra. La partita inizia con Chicago molto attiva in fase di pressing, facendo un ottimo lavoro nel recuperare palloni in zone avanzate di campo e schermando spesso alle due centrali di difesa la linea di passaggio verso le due centrocampiste Bailey e Sullivan, che avrebbero il compito, sopratutto la seconda, di portare il pallone in zone avanzate di campo. Washington accetta volentieri la pressione di Chicago perché, pur essendo in una prima fase molto sloppy e poco attenta in fase di possesso, sa che quando riesce a liberare la propria metà campo e a ritrovarsi in superiorità numerica in quella avversaria ha una macchina da spazi aperti, un quartetto offensivo che per abilità nel dribbling in corsa, tecnica di passaggio e attacco della profondità può essere letale. Proprio in reazione preventiva a questo pericolo, prima che potesse fare troppi danni, arriva da parte di Rory Dames l’aggiustamento tattico principale della partita e che contribuirà pesantemente a renderla più lenta e probabilmente meno divertente. Chicago infatti al trentesimo minuto del primo tempo abbassa la sua pressione e incomincia a difendere con undici donne dietro la metà campo. In una prima fase, l’impressione è che sia solo una necessità per abbassare il ritmo e non far stancare troppo le calciatrici in vista di una partita dura sotto ogni punto di vista, ma presto le circostanze renderanno il piano tattico di Dames una strategia da portare fino al fischio finale.
Nei minuti di recupero del primo tempo, con Chicago temporaneamente in dieci con Mal Pugh dolorante a bordo campo – nel secondo tempo la classe 1998 non rientrerà e, come spesso accade quando Mal Pugh non c’è, la partita diventa come minimo il 20% meno divertente – Wright, professione terzino sinistro, vede la prateria lasciata dall’assenza momentanea di Pugh come un’occasione per prendersi le responsabilità di due calciatrici e di trascinare la squadra con forza verso il vantaggio, con un dispendio di energie che farebbero pensare di essere nel recupero del novantesimo minuto e non in quello del quarantacinquesimo, spedisce Kelley O’Hara a mettere le bustine nel té caldo così che tutti possano trovarlo pronto una volta negli spogliatoi e mette in area un cross lungo e arcuato. Dall’altra fascia Hill taglia attaccando con forza il secondo palo ed è la prima ad intervenire sul pallone che, ritornato ad altezze raggiungibili da un essere umano in elevazione, si trova a meno di un metro dalla linea di porta. Con quello che è di fatto l’ultimo tocco del primo tempo, Chicago si porta in vantaggio e sembra prolungare la sua mistica da squadra che non crea mai troppo, che non è mai troppo impressionante e che non manda ai matti gli allenatori avversari che tentano di interpretarne i meccanismi ma che pure trova sempre il modo di avere un vantaggio e che eccelle nella gestione dei momenti più delicati di una partita, evitando per quanto possibile di subire grandi occasioni da gol. Nel secondo, le Red Stars mostrano fin da subito di sapere che sarà un secondo tempo di sofferenza e si immedesimano sempre di più nel loro ruolo di sughero a difesa della porta, che è una scelta certo pericolosa quando ci si trova di fronte al cavatappi forse più devastante ed efficiente della NWSL contro squadre molto chiuse. La scelta comunque sembra poter funzionare, anche perché la migliore passatrice di Washington, Ashley Sanchez, è praticamente invisibile e sembra la gemella meno forte di quella che una settimana prima aveva spedito le Spirit a questo incontro con un pallonetto che è per difficoltà e genialità una mossa decisiva di Bobby Fischer, ma allo stesso tempo fallisce nell’identificare quanto esattamente possa essere pericolosa una Trinity Rodman in missione. Perché ad un certo punto del secondo tempo le Spirit iniziano a giocare Rodman-Ball e si ha assolutamente l’impressione assistere ad una di quelle partite che rendono evidente il fatto che ci troviamo di fronte alla più grande stella della sua generazione. Non voglio esagerare con i paragoni baskettari perché darebbe l’impressione che io li stia facendo solo per questioni di lignaggio, ma viene difficile non pensare a quando un giovane Kobe Bryant si prese il campo durante le finali NBA contro gli Indiana Pacers con Shaq fuori per falli e iniziò a dominare come se fosse stato il suo ruolo fin dall’inizio, come se fosse normale.
Adesso dobbiamo fermarci un attimo a parlare della partita di Trinity Rodman, anche perché da un certo punto in poi, come detto, la partita intera può essere analizzata solamente attraverso la lente delle giocate della rookie di Washington. E già questo, già solo quest’ultima frase porta con se un peso gigantesco, perché non è così che dovrebbero andare le cose. A diciannove anni, alla fine della tua prima stagione da professionista, dopo essere stata praticamente ferma un anno e aver saltato direttamente dal liceo alla NWSL visto che la pandemia ha bloccato la tua unica stagione al college, non dovresti poter essere in grado di dominare la partita, di farne un tuo regno personale da cui non si può uscire né entrare senza il tuo permesso. Nella lunga lista di cose senza senso e inspiegabili fatte da Rodman non solo in questa partita, ma più in generale nel corso del suo primo anno da professionista, potrebbe essere difficile battere ciò che succede al minuto sessanta quando riceve un pallone sulla fascia e viene subito contrastata dalla marcatrice, ed effettua uno stop orientato più veloce di un battito delle palpebre che le permette subito di saltare l’avversaria senza preoccuparsi del pallone, avanzando poi qualche metro prima di sparare una scarica di proiettili che va ad infrangersi sul palo prima che Miller possa mettersi sulla traiettoria del pallone, così veloce da far sembrare un portiere professionista un glitch di FIFA di quelli che fanno muovere il portiere più tardi. Quello è il punto dopo cui non ci sono veramente contromosse da fare. Dames prova a quadruplicare Rodman, ma lei se ne esce con una ruleta e tunnel per poi provare un tiro forse appena appena un poco velleitario – ma se non li provasse mai non avremmo lo spettacolo del precedente palo. Poi arrivano le giocate decisive per la rimonta. Prima dalla fascia sinistra taglia un bellissimo rasoterra che vola tra una selva di gambe e arriva in area, causando la situazione da cui nasce il rigore poi trasformato – con un po’ di fortuna, va detto – da Andi Sullivan, capitana della franchigia, decisiva nel primo turno dei playoff con una prestazione mostruosa da metronomo del centrocampo e cresciuta a pochi chilometri da Washington, nel bel mezzo della DMV. Poi, nei supplementari, riceve il pallone sulla fascia sinistra, la zona del campo in cui ha dominato maggiormente, si ferma e sembra preparare l’ennesima corsa con dribbling ubriacante. E invece si sposta il pallone sul destro, alza la testa e lancia un cross precisissimo che centra perfettamente i centosessantacinque centimetri di Kelley O’Hara. La veterana, una delle poche della squadra, due volte campionessa del mondo, aveva spesso parlato di quanto avrebbe desiderato vincere per la prima volta la NWSL entro la fine della sua carriera, ed è lei a decidere la partita che ha riportato un titolo nella Washington calcistica per la prima volta dal 2003 a livello femminile, dal 2013 considerando anche DC United in MLS. Tutto questo sarebbe stato comunque inutile se non fosse intervenuta colei che alla fine è stata giustamente eletta, nonostante la prestazione monstre di Rodman, MVP della finale, ovvero Aubrey Bledsoe. Dopo aver regalato spettacolo nel primo turno playoff contro North Carolina, in cui lei e Casey Murphy costrinsero una partita che per occasioni sarebbe potuta finire 4-3 a terminare con il risultato di 1-0, Bledsoe ha chiuso a doppia mandata il risultato finale con un paio di parate decisive nei supplementari inclusa una assolutamente senza senso su Doniak, inspiegabilmente trovatasi sola al centodiciassettesimo minuto in area di rigore e ipnotizzata non si sa bene come nonostante un tiro ben angolato e molto potente. A trent’anni, il prodotto da Wake Forest sembra finalmente pronto a prendersi la porta dello USWNT dopo una prestazione di quelle che definiscono un’intera partita.
Dall’altra parte, la Chicago uscita con le ossa rotte dal ciclone Rodman si prepara ad una rivoluzione, la prima nella storia della franchigia in NWSL. Rory Dames, tecnico nativo di Chicago e unico allenatore delle Red Stars dal loro sbarco nella nuova lega calcistica statunitense, ha annunciato le sue dimissioni dopo undici anni alla guida della squadra della sua città, dopo aver partecipato a tre finali e dopo averle perse tutte e tre, la prima delle quali nel 2011 nella allora WPSL, campionato amatoriale che rappresenta ufficialmente il secondo livello del calcio statunitense, e le altre due consecutivamente – se consideriamo il vuoto dovuto alla pandemia della stagione 2020 – tra il 2019 e questo 2021. Nello scorso decennio e in questo da poco iniziato le Red Stars hanno dimostrato una costanza invidiabile, mettendo in mostra alcune delle migliori giocatrici al mondo e mantenendosi competitive anche dopo l’addio di una calciatrice fenomenale come Sam Kerr, ma adesso dovranno con ogni probabilità affrontare lo spettro di una ricostruzione che potrebbe richiedere del tempo. Questo non toglie nulla comunque all’eccezionalità della loro stagione, a partire dal fatto che tra i dieci tecnici che avevano iniziato la stagione 2021 alla guida delle franchigie NWSL, Dames è uno dei quattro rimasti fino all’ultima gara stagionale – ma considerato il suo addio, in aggiunta a quello di Mark Parsons a Portland, abbassa a due il numero di coloro che manterranno il ruolo di capo allenatori tra l’inizio del 2021 e quello del 2022. Questa edizione delle Red Stars può raccontare di aver goduto di alcune grandissime calciatrici, di aver rivitalizzato la carriera di Mal Pugh, che dopo un paio di anni difficili si è ripresa – e ha ancora solo ventitre anni, ricordiamolo – un posto importante nel futuro dello USWNT, di averci fatto scoprire una rookie di sicuro avvenire come l’enfant du pays – è nata a Orland Park, Illinois, ed è cresciuta nel settore giovanile di quel Chicago Eclipse Select di cui Rory Dames è direttore sportivo dal 1996, avendo mantenuto il posto anche durante la sua era con le Red Stars – Tatumn Milazzo, classe 1998 prodotto di South Carolina che si è imposta in questa finale come una vera e propria insuperabile fuoriclasse del tackle, che le ha permesso di fermare almeno tre ripartenze molto promettenti in casa Spirit.
Mentre ci apprestiamo a chiudere per l’ultima volta la saracinesca su questa stagione 2021 della NWSL, non possiamo non guardarci indietro e non riflettere su quanto sia stata lunga e su quanto rappresenterà indubbiamente uno snodo cruciale per il futuro della lega, una di quelle date dopo cui nulla potrà più essere come prima. Le dimensioni epidemiche acquisite dai comportamenti inappropriati di tecnici e membri dello staff ha evidenziato un problema che non può più essere scacciato come polvere sotto il tappeto, richiedendo immediatamente un cambio di governance e delle differenti strutture di supporto per garantire alle atlete la miglior esperienza professionistica e umana possibile. Limitandoci solamente al campo, l’addio di Carli Lloyd al calcio giocato e il bronzo olimpico hanno rappresentato la fine di un’epoca per lo USWNT e, come si può intendere dalle convocazioni di Vlatko Andonovski per la tournée in Australia, sta per incominciare un nuovo progetto tecnico per la nazionale più vincente al mondo, proprio la ragione per cui il tecnico di origine macedone era stato chiamato in primo luogo su quella panchina. Nel 2022 la corsa all’Ovest della NWSL troverà la sua conclusione con due espansioni a Los Angeles e San Diego, lasciando immaginare un potenziale di crescita per la lega simile a quello della MLS. In questo senso la finale del NWSL Championship svoltasi al Lynn Family Stadium di Louisville ha rappresentato un microcosmo in grado di rappresentare in scala l’eccezionale numero di cambiamenti e rivoluzioni che attendono il soccer nei prossimi anni. Uno dei progetti tecnici più consistenti e più presenti ad alto livello nella storia della NWSL, le Red Stars guidate da Rory Dames, hanno visto la loro conclusione in quella che, con il senno di poi – perché l’annuncio dell’addio del tecnico è arrivato come un fulmine a ciel sereno nella notte italiana – è stato l’ultimo ballo non perfettamente riuscito per questo gruppo. Dall’altra parte, nell’angolo delle vincitrici, le Washington Spirit hanno raccolto il loro primo trofeo proprio nell’anno in cui han dovuto ricostruire un morale a terra dopo l’esplosione del caso Burke e in cui potrebbero trovarsi a ripartire da zero qualora Steve Baldwin si decidesse a vendere le sue quote della franchigia, e lo hanno fatto mettendo in mostra il volto più atteso per il futuro dello USWNT, un talento generazionale che ha concluso la stagione da rookie dell’anno in una maniera in cui nessuna rookie dell’anno aveva mai concluso la propria: vincendo, anzi dominando la finale per il titolo. Insomma, per dirla con le parole di uno dei più grandi cantautori degli ultimi quarant’anni di musica popolare: It’s the end of the world as we know it (and Trinity Rodman feels fine).
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