Gonzalo “core ‘ngrato”, è ora di diventare un leader
Lo ammetto: non sono uno di quei tifosi che ha gridato allo scandalo quando Gonzalo Higuain ha deciso di lasciare il Napoli per la Juventus, anzi ne ho compreso le scelte di fondo. Da qualche parte deve ancora esistere una mia intervista a una televisione locale in cui spiegavo che, probabilmente, in mancanza di una volontà societaria di investire per ottenere traguardi maggiori e nell’aumento degli introiti del bomber che aveva appena realizzato il nuovo record assoluto di reti in una stagione di Serie A, era logico che un calciatore a 29 anni scegliesse di andare nella squadra con maggiori prospettive di vittoria del campionato in cui già militava e che aveva dimostrato di conoscere bene, oltre a poter ambire alla conquista della tanta agognata Champions. Certo, non mi ha fatto per nulla piacerle vederlo indossare la casacca della nostra peggior rivale sportiva, e sottolineo sportiva, né tanto meno vederlo segnarci contro quasi a ogni appuntamento. Ne ho apprezzato anche la sincerità quando, dopo aver segnato l’uno a zero per la Juventus nella semifinale di ritorno della Coppa Italia 2017 al San Paolo, si volse verso la tribuna d’onore e indicando Aurelio De Laurentiis gli disse: “è tua la colpa”, volendo così gridare ai tifosi azzurri quella che era la sua verità. A onor del vero Il Pipita non è stato mai uno colmo di sentimentalismi, aveva si cantato con la curva “Un giorno all’improvviso” nel massimo fulgore dei suoi giorni napoletani, ma era pur sempre un argentino del “borghese” River Plate in un mondo a vocazione Boca Juniors non fosse altro per il “pibeiano” retaggio. Di quei giorni resta comunque l’arrivo da stella, a oggi ancora il più grande affermato fuoriclasse giunto nell’era De Laurentiis, grazie a quel dream team vesuviano che fu possibile per l’arrivo in panchina di mister Rafa Benitez, e la consacrazione di quelle trentasei reti ottenute non con la solita retorica del Davide contro Golia, ma forse in quella virile e foriera di forza di Saul, primo re d’Israele, guidato dal “Samuele” comandante Sarri.
Wikipedia ci ricorda che nell’inverno 2007, quando giunse al Real Madrid, l’allora presidente Ramon Calderon disse che il suo talento era grande quasi quanto la sua umiltà. Dell’Higuain atleta a Castel Volturno io ricordo soprattutto la totale abnegazione che ne hanno fatto uno degli attaccanti migliori del Ventunesimo Secolo, sicuramente il più bravo a ricalcare l’antico ruolo del centravanti mostrando quella fisicità e quel guizzo atletico del calcio di una volta, trapiantato alla perfezione in quel coacervo di passaggi e corsa che è questo particolare scampolo di secolo. Non ho mai amato invece la sua abitudine, forse a volte abusata, di redarguire i compagni che sbagliano. Anche qui può darsi che io sia stato abituato male, in quanto cresciuto con le prodezze di Maradona in maglia azzurra, uno che in qualsiasi momento esaltava qualsiasi compagno, spingendoli a dare il 110%.
Di ciò che è stato dopo il primo anno con la Juventus ne ho un ricordo triste, perché ho sempre confidato in una sua ripresa in quanto non dimentico quello che ha rappresentato per noi dopo anni e anni (bellissimi, s’intende, per un adolescente e un giovane universitario) di altalenanti salvezze, retrocessioni in Serie B, battaglie legali e gioiose palpitazioni di risalita. L’approdo a Vinovo di Cristiano Ronaldo lo allontanarono, forse più per questioni di budget che di gioco o di caratteri. L’avventura tiepida al Milan, forse non iniziata male e l’approdo al Chelsea dove ritrova il suo profeta rivoluzionario Sarri, ma la benedizione di Dio a Saul oramai è tolta, il campo è ancora una volta quello ribaltato dei filistei, vi è anche il profeta con lui ma totalmente disinvestito da ogni annuncio rivoluzionario. C’è tempo, nella Coppa Italia persa contro gli azzurri, di incrociare il suo vecchio patron Aurelio De Laurentiis, salutarsi, scambiare qualche battuta, forse chiudere la questione per sempre.
Della sua avventura a Miami c’è da apprezzare sicuramente il coraggio, dopo che qualcuno lo aveva accusato durante il lockdown di fuga in Argentina, di avere scelto gli States, tra le nazioni maggiormente colpite dall’epidemia mondiale di covid-19. Si dice che David Beckham, il presidente, ci abbia messo del suo per farlo approdare alla sua creatura tanto bisognosa di un’identità. I due vissero soltanto sei mesi insieme al Santiago Bernabeu. L’uno, stella in procinto di divenire una supernova nella galassia della Major League Soccer, l’altro appena giunta da Buenos Aires per conquistare il mondo. La speronata in aria del rigore e la conseguente rissa per lo “scanto” di vedersi una piedata in faccia possono essere soltanto un episodio, se Gonzalo Higuain da Brest, Francia, lo vorrà. Non c’è due senza tre, si dice. Nel 2015 a distanza di pochi mesi due sue errori dal dischetto costarono la qualificazione Champions al Napoli e la vittoria della Copa America alla sua Argentina. Ora il tre è arrivato, a distanza di cinque anni.
Che cosa farà ora Gonzalo in Florida? Una leggiadra, “splapita” per dirla con Andrea Camilleri, pensione oppure scriverà la storia? El Pipita è approdato in una franchigia, l’Internacional de Miami, partità con grandi investimenti e ancora maggiori speranze, un allenatore sudamericano vincente e un roster concreto fatto di giovani, qualche fuoriclasse dell’universo americano e molti uomini di esperienza nella MLS, ma qualcosa è andato storto, anche perché il primo anno con uno stop di parecchi mesi e una epidemia incombente non è di certo facile. Che cosa deve fare Higuain? Trasformarsi in quello che forse non è mai voluto essere: un leader capace di trascinare i suoi uomini verso l’agognata vittoria. Soltanto così potrà riscattarsi dalle troppe, spesso ingiuste critiche subite nel Vecchio Continente negli ultimi anni. Per farlo dovrà vincere in primis la MLS Cup e tentare in ogni modo di conquistare la Concacaf Champions League. Poco importa se qualcuno storcerà il naso ignorando le difficoltà di un campionato lunghissimo a 26 squadre e destinato ad aumentare, con decine di trasferte enormi e con dei play off che rimettono tutto in gioco. Poco importa se qualcuno ancora non capisce che il vento del futuro del calcio soffia in quella direzione, e per numeri e qualità del pubblico coinvolto, e per capacità di gestione della macchina sportiva. Poco importa se ad aver vinto venendo dall’antica Europa sono stati in pochi, David Beckham su tutti e il nostro Sebastian Giovinco che di serietà e adesione a quella realtà ne è stato maestro. Non hanno vinto invece in tanti: Lothar Matthaus, Alessandro Nesta, Thierry Henry, Didier Drogba, Andrea Pirlo, Kakà, David Villa, Wayne Rooney e Zlatan Ibrahimovic. Chi ha un fratello maggiore lo sa, nella maggior parte dei casi i basilari della vita li si apprendono da loro, per me è stato così. Gonzalo nella MLS ha un fratello maggiore che è divenuto leader a Columbus e che ora bazzica in quel di Washington, qualcosa anche il Pipita dovrà ancora imparare.
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